Medea comincia dal terzo atto

Grazie al "festival delle regioni", approva allo Châtelet di Parigi la produzione di Medea voluta dal Capitole di Tolosa. A dispetto di tanta attesa, lo spettacolo delude. Perfino l'Antonacci non è in gran forma. A disagio con l'ouverture, l'orchestra ritrova il suo smalto con il preludio del III Atto. Invece, prodigiosa l'esecuzione di Sara Mingardo.

Recensione
classica
Théâtre du Châtelet Parigi
Luigi Cherubini
30 Giugno 2005
Medea approda allo Châtelet di Parigi sull'onda dello strepitoso successo al Capitole di Tolosa. Si è detto di tutto, forse pure troppo, di questa produzione. Non è mancato pure chi è spinto ad affermare che l'interpretazione di Anna Caterina Antonacci avrebbe spazzato via quella mitica della Callas. L'attesa era dunque spasmodica. E purtroppo, qualche pecca fa capolino all'inizio. La delusione maggiore è per la regia. L'idea di affidare al greco naturalizzato francese, Yannis Kokkos, la concezione della regia, delle scene e dei costumi sembrava geniale. Chi meglio di lui poteva portare sul palcoscenico questo mito greco con cui si confrontò pure il francese d'adozione Cherubini? Eppure Kokkos non riesce ad uscire dai clichés, risfoderando vecchie trovate: una scalinata, due porte simmetriche... (non le avevamo già viste nei Troyens?). Certo, non mancano momenti di alta poesia, come la scena delle nozze alla fine del II atto: mentre Medea è accovacciata per terra, sfila dietro il corte nuziale in bianco: una bella pensata di spazialità. Ma, soprattutto, pare che i cantanti si muovano sulla scena senza direttive: neppure l'Antonacci, solitamente attrice impressionante, riesce a trovare il suo posto. Quanto agli altri fanno quello che possono o vogliono: Giuseppe Gipali non esita a mettersi la mano sul cuore, come un tenore da macchietta. Probabilmente, la più convincente è Sara Mingardo, compostissima nutrice, dai gesti misurati. E anche vocalmente la Mingardo (Neris) si distingue, grazie al suo timbro sontuoso e a dispetto di un ruolo non di primo piano. Invece, assai ordinaria è la Glauce di Annamaria dell'Oste e convenzionale il Giasone di Gipali. E l'Antonacci? Ovviamente, trionfa, accolta alla fine da un pubblico in delirio. Eppure, è solo nel terzo atto che riesce veramente a lasciarsi abitare dal personaggio, convincendo senza esitazioni. In effetti, l'atto terzo si impone indiscutibilmente come il momento più alto di questa produzione. Anche per l'orchestra che alla fine trova un livello di esecuzione all'altezza della sua fama. Proprio per l'orchestra, non è cominciata benissimo. Malgrado Evelino Pidò ce l'abbia messa tutta, nel momento dell'ouverture è uscito dalla fossa un'interpretazione incolore e pasticciata. Con il preludio dell'atto terzo, l'Orchestra del Capitole di Tolosa pare trasformata. Finalmente, ritroviamo un'energia straripante, una tavolozza amplissima, un'estrema virtuosità tanto nei solisti (vedi i fiati) quanto nella compagine collettiva. E la fossa ritrova parallelamente la sintonia con il palcoscenico.

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