Un lager siberiano firmato Janacek
L'opera estrema di Janacek è in cartello a Bastlle. E' l'occasione per ritrovare l'ottimo José Van Dam. Brilla il direttore d'orchestra Marc Albrecht
Recensione
classica
Il testamento di Janacek va in scena a Bastille. Accordo dopo accordo, lo spettatore sprofonda nella poltrona rivivendo una vera discesa agli inferi che, in appena un'ora e venticinque minuti, rievoca il travaglio del compositore alle prese con l'autobiografia straziante di Dostoievski. È una musica che non permette pause: tutto è un concentrato di dolore e di disillusione, continuamente simulati dalla tessitura acuta dei violini che dominano ampiamente sul resto della compagine orchestrale. Eppure, il regista Klaus Michael Grüber ha fatto la scelta di non aggiungere tinte cupe. Anzi, dominano colori solari in sintonia con certe aperture di speranza del testo. Il cielo è blu, le divise dei prigionieri sono di giallo pastello. Si tratta di chiazze di colore che animano il lager in Siberia in cui è ambientata la storia, così come certi intermezzi, comici solo in superficie, sembrerebbero rompere la tragicità della partitura. Ma l'ambiguità fosca dominante non lascia illusioni. Certo, sia l'aquila sia il prigioniero Goriantchikov prendono il volo alla fine dell'opera, ma appaiono sul grande albero, che incombe sulla scena e sui prigionieri, corvi minacciosi, presagio evidente di un seguito senza appello.
In quest'opera, l'ultima composta da Janacek e rappresentata postuma per la prima volta nel 1930, non c'è spazio per squarci lirici, è il racconto a dominare. Mancano le stars. Tutti i cantanti (ottimi in questa produzione) sono comprimari. Ma, come non lasciarsi commuovere dalla presenza di José van Dam nel ruolo del prigioniero politico Goriantchikov? Comunque, chi ha veramente spiccato è stato il bravissimo direttore Marc Albrecht che non ha dato tregua alla concentratissima orchestra dell'Opéra.
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