Tra realismo slavo e cinema hollywoodiano

Il soggetto di "Katia Kabanova", tratto dalla pièce ottocentesca del drammaturgo russo Alexandre Ostrovski, possiede, grazie al suo forte realismo psicologico, ancora oggi una certa attualità: la storia di una donna infelicemente sposata ad un uomo succube di una madre castratrice appartiene in fondo anche alla narrativa (e al quotidiano) nel Novecento.

Recensione
classica
Grand Théâtre Ginevra
Leos Janacek
08 Novembre 2003
Il soggetto di "Katia Kabanova", tratto dalla pièce ottocentesca del drammaturgo russo Alexandre Ostrovski, possiede, grazie al suo forte realismo psicologico, ancora oggi una certa attualità: la storia di una donna infelicemente sposata ad un uomo succube di una madre castratrice appartiene in fondo anche alla narrativa (e al quotidiano) nel Novecento. Per questo non meraviglia che la regista Katie Mitchell per la sua messinscena ginevrina (realizzata in coproduzione con la Welsh National Opera di Cardiff) abbia deciso di ambientare l'opera di Janácek negli anni Cinquanta. Di russo qui c'è ben poco: gli arredi e i costumi di Vicki Mortimer sembrano piuttosto richiamare un'ambientazione mitteleuropea, se non proprio anglosassone. Anzi, a giudicare dalla calligrafia scarna che permea la messinscena, il modello potrebbe essere addirittura il dramma hollywoodiano stile Douglas Sirk. L'operazione della regista britannica sembra infatti richiamare uno dei principi basilari del recente film Lontano dal Paradiso (Far from heaven) di Todd Haynes, vale a dire l'idea del melodramma cinematografico americano del dopoguerra come mondo di superfici levigate ed asettiche, dietro le quali si celano passioni inesprimibili ed esplosive. La matrice hollywoodiana della "Katia" della Mitchell si nota non solo nel contrasto evidente tra una realizzazione scenica di stampo naturalistico e un'illuminazione, a cura di Paule Constable, spesso antirealistica, ma anche in alcuni dettagli, come l'uso della 'moviola' nell'entrata in scena di Katia e suo marito Tikhon nel primo atto, nonché la breve danza a due del terzo atto, un'evidente allusione al musical. La sferzante critica alle convenzioni sociali ottocentesche che permea il libretto viene così estesa all'ipocrisia borghese del secondo dopoguerra, di cui la terribile suocera Kabanicha, impeccabile in cappellino e tailleur, diventa l'espressione emblematica. Probabilmente con il fine di togliere ogni magniloquenza scenica all'azione, adeguandosi così alla partitura essenzialmente cameristica di Janácek (o forse per accentuare la 'ristrettezza' morale dell'ambiente?), la regista tende poi a ridurre lo spazio d'azione del dramma, o in profondità, spezzando la scena tra stretti interni ed esterni, o in 'superficie', utilizzando una specie di sipario a pannelli che riduce la visione dello spettatore. Certo, l'ambientazione volutamente asettica contrasta con la materia musicale ribollente dell'opera (il che è evidente soprattutto in Kabanicha, che, malgrado l'aspetto elegante e sostenuto da signora bene, rimane musicalmente una matriarca slava senza peli sulla lingua), ma non si potrà certo rimproverare alla Mitchell di non avere un'idea precisa del dramma. Nella stessa linea, il direttore Jiri Belohlávec ha cercato di evidenziare già dalle prime battute dell'orchestra il carattere 'intimo' dell'opera, ma non è sempre riuscito a reggere il tono, forse non sempre aiutato da un Orchestre de la Suisse Romande eccezionalmente fuori forma. Cheryl Barker, nel ruolo di Katia, possiede sicuramente una voce di grande omogeneità e forte impatto drammatico, anche se il fievole registro grave, nonché l'esecuzione non sempre intonatissima dei salti che l'impervia parte esige non ne fanno una Katia ideale; vocalmente e scenicamente piuttosto legnoso si è rivelato invece il Boris di Peter Straka. Molto bravi Dagmar Peckova, che ha reso una Varvara scenicamente convincente e dalla voce sontuosa, e Gordon Gietz, che con prestanza fisica e vocale ha dato vita ad un Koudriache giovane e romantico. E per concludere, una particolare menzione a Nadine Denize, che ha incarnato con grande credibilità drammatica la diabolica Kabanicha.

Note: Nuovo allestimento in coproduzione con Welsh National Opera di Cardiff

Interpreti: Dikoï, Bernard Deletré; Boris, Peter Straka; Kabanikha, Nadine Denize; Tikhon, Peter Hoare; Katia, Cheryl Barker; Koudriache, Gordon Gietz; Varvara, Dagmar Pecková; Kuligin, Harry Draganov; Glasha, Victoria Martynenko; Feklush, Mariana Vassileva

Regia: Katie Mitchell

Scene: Vicki Mortimer

Costumi: Vicki Mortimer

Coreografo: Struan Leslie

Orchestra: Orchestre de la Suisse Romande

Direttore: Jiri Belohlávec

Coro: Choeurs du Grand Théâtre

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

A Colonia l’Orlando di Händel tratta dall’Ariosto e l’Orlando di Virginia Woolf si fondono nel singolare allestimento firmato da Rafael Villalobos con Xavier Sabata protagonista 

classica

Jonas  di Carissimi e Vanitas  di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento

classica

Napoli: Dvorak apre il San Carlo