È uno spettacolo del 1968, ormai storico, nel senso più solenne del termine. Allora la regia era di Giorgio De Lullo, ma dopo la sua morte prematura le varie riprese sono state firmate da Pier Luigi Pizzi, autore anche delle scene e dei costumi. Naturalmente in trentatre anni ci sono stati molti cambiamenti, ma, per quanto rilevanti possano sembrare a prima vista, si tratta sempre di dettagli, perché è restata immutata la concezione di fondo, rigorosa, semplice, scarna. Non vengono messi in scena i fatti ma le emozioni: eliminati tutti gli elementi superflui e decorativi, risulta enormemente rafforzato l'impatto drammatico di quest'opera bellissima (sì: bellissima!), che scava i due temi fondamentali del mondo verdiano, la solitudine del potere e l'amore paterno. Basterà descrivere la prima scena: il palcoscenico è chiuso da una grande parete grigia, che poi si apre, scoprendo una lunga e ripida scalinata, lungo la quale sale faticosamente il vecchio doge, piegato dagli anni e dal dolore, per raggiungere il suo trono sormontato da un grande leone di San Marco dorato, unico elemento scintillante in una scenografia tutta di colore grigio. Contrasta con la tinta smorta e con la chiusura claustrofobica della scena il forte impatto cromatico dei costumi: il rosso porpureo dello spietato Consiglio dei Dieci e della Giunta, l'oro sbiadito del doge, il blu altero e insieme appassionato di Lucrezia Contarini, il nero di Jacopo Foscari, votato alla morte fin dall'inizio. Questi Due Foscari di De Lullo aprirono nuove prospettive alla regia operistica, in anni in cui il Don Carlo sfrenatamente sontuoso e le Nozze di Figaro poeticamente iperrealistiche di Visconti (altri spettacoli storici dell'Opera in quegli anni) sembravano le uniche alternative al ciarpame della routine. Sul podio, oggi come nel 1968, sta Bruno Bartoletti. Giù il cappello, signori! Non ce ne sono molti che capiscano Verdi come quest'anziano maestro. Senza andare a cercare improbabili preziosismi, mette in rilievo la valenza drammatica già magistrale dell'orchestra verdiana e coglie la tinta peculiare di quest'opera dolente e ombrosa, sfuggendo al luogo comune che uniforma tutto il Verdi degli anni di galera sotto il segno del clangore bandistico. Ottima la prova dell'orchestra e anche, nel complesso, quella del coro. In palcoscenico, Renato Bruson è Francesco Foscari. La voce è un po' stanca ma, quando un artista è capace di tale approfondimento interpretativo e di tale varietà di sfumature vocali, questo conta poco o nulla, anzi questa stessa stanchezza diviene un tratto fondamentale del ritratto del doge, il cui antico vigore è piegato dagli eventi. Straordinario! Darina Takova, nella sua nuova versione di soprano di agilità e di forza, è talmente impeccabile da apparire a qualcuno un tantino meccanica: ce ne fossero di più come lei tra i tanti cantanti verdiani che considerano lo stile, l'intonazione e il solfeggio delle oziose pignolerie! Ce n'è un esempio a portata di mano in Antonello Palombi (Jacopo Foscari), che per di più canta tutto forte: ma forse è meglio così, perché, se azzarda una mezza voce, tutta la sua già precaria organizzazione vocale comincia a traballare spaventosamente. Peccato, altrimenti la festa sarebbe stata completa.
Interpreti: Bruson/Servile, Takova/Taigi, Palombi/Momirov, Rota/Zanellato, Floris/Lo Sciuto, Minarelli/Fornasari Patti, Nardinocchi, Nardone/Faillaci
Regia: Pier Luigi Pizzi
Scene: Pier Luigi Pizzi
Costumi: Pier Luigi Pizzi
Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma
Direttore: Bruno Bartoletti/Roberto Pollastri (il 22)
Coro: Coro del Teatro dell'Opera di Roma
Maestro Coro: Andrea Giorgi