Quando nel 1791 l'impresario londinese Salomon si presentò ad Haydn per convincerlo a seguirlo in Inghilterra, la sua proposta d'affari, estremamente seducente, includeva un contratto per una nuova opera, pagata in anticipo, da rappresentarsi al King's Theatre, recentemente ricostruito. Giunto a Londra il compositore si mise al lavoro su di un libretto di Carlo Francesco Badini, intitolato "L'anima del filosofo", una rivisitazione del mito di Orfeo che prometteva essere completamente diversa dalla versione di Gluck (che Haydn conosceva bene, avendola diretta personalmente ad Esterhaza, e la cui influenza è percepibile nel trattamento del coro, musicalmente l'elemento più interessante). Impicci burocratici causarono la chiusura del teatro, e l'opera, ancora prima di arrivare sul palcoscenico, fu abbandonata e dimenticata. Rappresentata per la prima volta solo nel 1951, a Firenze, diretta da Erich Kleiber e con Maria Callas nel ruolo di Euridice, "L'anima del filosofo" soffre dei problemi congeniti ai lavori teatrali di Haydn, generalmente carenti in struttura, ritmo drammatico e profondità psicologica, problemi in questo caso aggravati da un libretto particolarmente insoddisfacente, che nel tentativo di espandere l'arco della narrazione (che include un primo salvataggio di Euridice da parte di Orfeo e la morte di quest'ultimo per mano delle Baccanti) perde di direzionalità e diventa al meglio episodico, tanto da giustificare la percezione che si tratti di un lavoro incompleto: Badini era noto per le sue revisioni all'ultimo minuto, ed il titolo non è giustificato dal dramma nella forma che ci è pervenuta, rinforzando l'ipotesi che un quinto atto, se mai scritto, sia andato perduto. La presente produzione, originata nel 1995 al festival di Vienna e precedentemente vista a Zurigo, è ovviamente nata (insieme alla incisione del lavoro) come un veicolo per Cecilia Bartoli, che canta entrambi i ruoli di Euridice e del Genio che accompagna Orfeo nell'oltretomba (una innovazione di Badini). Si tratta di una scelta discutibile, e certo non giustificata dalla regia di Jurgen Flimm, che sembra avere difficoltà a relazionarsi con questo lavoro endemicamente carente di impulso drammatico e non riesce a scegliere tra ironia e serietà. La scenografia, di un monotono bianco integrale, ripropone l'ormai onnipresente piano inclinato, che nel terzo atto si solleva a rappresentare l'entrata agli inferi, e i due lati del palcoscenico sono delimitati da pareti in cui si aprono porte e finestre da cui sporgono, pupazzi caricaturali, gli elementi del coro. Christopher Hogwood, che aveva inciso il lavoro con Bartoli nel 1995, dirige con precisione di fraseggio una partitura che è tuttavia ben lontana dall'inventiva delle contemporanee sinfonie londinesi. Nonostante i fuochi pirotecnici della coloratura nella prima aria di Euridice ed in quella del Genio, Bartoli offre una performance sostanzialmente monocromatica, ed il tono mellifluo di Roberto Saccà non riesce a salvare questo Orfeo dalla staticità di un personaggio musicalmente non definito. Neanche l'energica presenza vocale di Gerald Finley nel ruolo di Creonte, padre di Euridice e probabilmente il filosofo indicato dall'ambiguo titolo, riesce a salvare una serata che, al di là dell'interesse accademico, si rivela una esperienza teatrale estremamente insoddisfacente.
Note: nuovo all.
Interpreti: Bartoli, Saccà, Finley, Sherrat, Hayes, Leggate
Regia: Jurgen Flimm
Scene: George Tsypin
Costumi: Florence von Gerkan
Coreografo: Catharina Luhr
Orchestra: Orchestra della Royal Opera House
Direttore: Christopher Hogwood
Coro: Coro della Royal Opera House