Elisir in Flatlandia
Elisir d'amore alla Scala: spiritosa e frizzante la scenografia di Tullio Pericoli, bolsa la direzione d'orchestra
Recensione
classica
Gradito ritorno alla Scala dell'Elisir d'amore con le scene e i costumi di Tullio Pericoli (allestimento nato nel '95 all'Opera di Zurigo e in seguito ampiamente rimaneggiato per la prima edizione scaligera del '98), che ha conservato intatte magia e ingenuità. Lo spettatore è costretto a dimenticare la dimensione della profondità ed entrare in un mondo a due dimensioni. In questa ironica Flatlandia anche gli oggetti scenici subiscono la stessa sorte e talore nasce perfino l'illusione che i cantanti siano ridotti a sottili figurine, dipinte a inchiostro di china e acquarelli. L'immagine che dà l'impronta a tutta l'opera è ricorrente nella pittura di Pericoli, quella del lungo viale alberato attraversato da cavalieri e cinghiali (con totale confusione fra cacciati e cacciatori), qui invece c'è solo un cinghiale (uno sfrecciante sberleffo, degno di un Obelix affamato) e il gioco è condotto dagli stessi alberi che allargano o restringono la prospettiva secondo funzionali capricci. Sul fondo una collina con chiesetta, paesaggio d'impronta marchigiana, che scena dopo scena si avvicina in una specie di zoommata. La base degli alberi non ha colore, come pure il coro dei villici e dei soldatini che hanno costumi sbiaditi dalla cintola in giù e sembrano così levitare. Sparisce anche il confine fra citazione del reale e segno, come nel siparietto con dipinta la figura di Dulcamara, che si arrotola per svelare il personaggio in carne e ossa vestito come il bozzetto. Destinato naturalmente a tornare bozzetto nel finale. Se punti di forza dello spettacolo sono state le invenzioni di Pericoli, messe in risalto dall'intelligente regia di Ugo Chiti, il punto debole è stata la direzione affidata a Roberto Brizzi Brignoli (Responsabile dei Servizi musicali della Scala): non un attimo di brio, non un estro, solo un noiosissimo tran tran che ha reso l'orchestra più bolsa che mai. E sì che dovrebbe essere un'opera buffa. La Scala, che negli ultimi anni si è sforzata nel formare nuovi cantanti, non riesce a proporre nuove leve interessanti per il podio. Nel cast spiccano Patrizia Ciofi, sicura, spiritosa, perfettamente a suo agio nei panni di Adina, anche nei momenti più impervi, e Roberto de Candia che pure ha una voce un po' chiara per Dulcamara, ma se la cava ottimamente (nell'edizione del '98 aveva cantato Belcore, ruolo a lui più adatto). Giuseppe Sabbatini, un Nemorino elegante e studiatissimo, avrebbe bisogno di spazi più ristretti per dare il meglio, comunque applauditissimo per la Furtiva lacrima, portata a termine senza esitazioni. Disinvolta la Giannetta di Marilena Laurenza. Mentre Simon Keenlyside, che sulla carta si annunciava un Belcore di tutto rispetto, è risultato scialbo, quasi ignorasse la parte. Sala con qualche posto vuoto, giustificato dall'essere venerdì santo (per altro festeggiato con un'opera buffa, ha fatto notare qualcuno). Discreta l'accoglienza del pubblico, con la platea che nel primo atto ha sistematicamente zittito i numerosi tentativi di claque del loggione.
Note: all. del Teatro alla Scala
Interpreti: Rost, Sabbatini, Keenlyside, De Candia
Regia: Ugo Chiti ripr. da Lorenza Cantini
Scene: Tullio Pericoli
Costumi: Tullio Pericoli
Orchestra: Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore: Roberto Rizzi Brignoli
Coro: Coro del Teatro alla Scala
Maestro Coro: Roberto Gabbiani
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