Carmen contro gli stereotipi
Intervista a Pietro Babina, regista di “Carmen” al Comunale di Bologna
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Pietro Babina, uomo del teatro della ricerca – pluripremiato UBU, creatore dello sperimentale Teatrino Clandestino e attuale coordinatore del gruppo Mesmer – approda al teatro d’opera con la regia di “Carmen”, dal 18 marzo al Teatro Comunale di Bologna. «L’occasione mi viene, suppongo, dalla curiosità del sovrintendente Sani di vedere cosa avrebbe potuto fare un “outsider”, ovvero un artista di teatro senza un percorso legato al teatro d'opera, ma con una spiccata sensibilità musicale. Sicuramente entrambi ci siamo assunti una certa quantità di rischio… ma in arte il rischio dovrebbe sempre essere inevitabile, anzi auspicabile.»
Cosa la affascina di questo soggetto?
«Ho l'impressione che la protagonista sia un personaggio sottovalutato, o meglio: è un personaggio talmente bloccato nel suo stereotipo da non riuscire a rivelare tutto ciò che potrebbe. Il mio tentativo è quello d’iniziare a scalfire questa immagine, perché un'altra, nel tempo, si riveli.»
È vero che ha aggiunto un pizzico di sovrannaturale alla trama?
«Il “magico” è una dimensione che da sempre mi attrae; è la via che mi si addice per interpretare e indagare quelle maglie oscure che sembrano essere i motori del mondo, e ha anche una caratteristica per me fondamentale: è teatrale.»
Com’è collaborare con i cantanti?
«La materia umana non è inerte: è mobile, cangiante, molto complessa. In questo i cantanti non sono molto dissimili dagli attori, ed è importante comprendere come lavorare, come portarli alla forma complessa che è lo spettacolo. Purtroppo credo che manchi molto il tempo per lavorare assieme.»
Qual è il suo rapporto con i limiti?
«Assolutamente stimolanti sono i limiti imposti dalla partitura di Bizet; altra cosa sono i limiti dovuti ai sistemi produttivi, che sono molto più duri; sono limiti antiartistici: si è costretti ad aggirarli o ad opporvi resistenza, ambedue atteggiamenti fondamentalmente avvilenti.»
Emozionato?
«Per mia natura l'emozione non si presenta fino a qualche ora prima del debutto, ma quando si presenta – e lo farà – solitamente è molto potente: questa è la nostra droga.»
Valentina Anzani
Cosa la affascina di questo soggetto?
«Ho l'impressione che la protagonista sia un personaggio sottovalutato, o meglio: è un personaggio talmente bloccato nel suo stereotipo da non riuscire a rivelare tutto ciò che potrebbe. Il mio tentativo è quello d’iniziare a scalfire questa immagine, perché un'altra, nel tempo, si riveli.»
È vero che ha aggiunto un pizzico di sovrannaturale alla trama?
«Il “magico” è una dimensione che da sempre mi attrae; è la via che mi si addice per interpretare e indagare quelle maglie oscure che sembrano essere i motori del mondo, e ha anche una caratteristica per me fondamentale: è teatrale.»
Com’è collaborare con i cantanti?
«La materia umana non è inerte: è mobile, cangiante, molto complessa. In questo i cantanti non sono molto dissimili dagli attori, ed è importante comprendere come lavorare, come portarli alla forma complessa che è lo spettacolo. Purtroppo credo che manchi molto il tempo per lavorare assieme.»
Qual è il suo rapporto con i limiti?
«Assolutamente stimolanti sono i limiti imposti dalla partitura di Bizet; altra cosa sono i limiti dovuti ai sistemi produttivi, che sono molto più duri; sono limiti antiartistici: si è costretti ad aggirarli o ad opporvi resistenza, ambedue atteggiamenti fondamentalmente avvilenti.»
Emozionato?
«Per mia natura l'emozione non si presenta fino a qualche ora prima del debutto, ma quando si presenta – e lo farà – solitamente è molto potente: questa è la nostra droga.»
Valentina Anzani
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