Una conferenza stampa dai toni accesi, quella con cui Stéphane Lissner ha di fatto concluso la sua avventura di nove anni alla Scala: prendendo spunto dal bilancio del 2013 appena approvato dal Cda, il sovrintendente uscente ha toccato molti punti, non solo economici, riguardanti il suo operato e, pur evitando risposte dirette, non ha potuto evitare di dare alcuni segnali riguardo alla vicenda che sta in queste settimane turbando la transizione - tutt'altro che morbida, ormai non c'è più dubbio - tra lui e il suo successore in attesa di giudizio, Alexander Pereira. Al centro delle polemiche sta il presunto conflitto di interessi di quest'ultimo nell'avere siglato, senza diritto di firma (attualmente Pereira è stato nominato consulente musicale delle Scala), un accordo con il Festival di Salisburgo (di cui è il direttore artistico uscente) per la co-produzione di alcuni allestimenti delle prossime stagioni.
Lissner e Pereira Alla domanda sul perché il passaggio di testimone non stia funzionando, contrariamente a quanto è accaduto in Francia, Lissner risponde: «Perché è la prima volta che la Scala fa una transizione di questo tipo. Questo modo di operare transizioni sull'arco di due o tre anni è necessario, lo è in tutte le istituzioni e i festival più importanti d'Europa». Ma poi, quando gli si chiede perché il Cda non abbia stabilito regole più chiare sui poteri e sui diritti di firma del sovrintendente 'in pectore', replica con un laconico: «Chiedetelo al Cda». Accanto alle lettere tra Pereira e la presidente del Festival di Salisburgo Helga Rabl-Stadler, c'è poi la lettera del settembre 2013 di Lissner a Pereira, che alcuni giornali italiani hanno usato per muovergli accuse di conflitto d'interessi analoghe a quelle sollevate da "Repubblica" nei confronti del direttore austriaco. In essa Lissner, su carta intestata dell'Opéra di Parigi avallava, in qualità di sovrintendente entrante con diritto di firma, l'entrata della Scala e del Met nella co-produzione dei "Maestri cantori" accanto all'Opéra e a Salisburgo. Prima di chiudersi in un no-comment, Lissner non manca di far notare seccamente che tale accordo si riferiva a una co-produzione avviata dal sovrintendente uscente dell'Opéra, Nicolas Joel. In attesa quindi che il Cda della Scala si pronunci sul caso Pereira, certo è che l'argomento non trova particolarmente sereno Lissner, che evidentemente non ha gradito i pesanti cambiamenti voluti dal suo probabile successore sulla prossima stagione, soprattutto in riferimento alla programmazione straordinaria per il semestre Expo, che Lissner aveva già definito e presentato al consiglio d'amministrazione con il bilancio in pareggio. La frecciata è puntuale: «Io sono stato nominato all'Opéra di Parigi e non ho cambiato nessuno spettacolo della stagione del prossimo anno decisa dal mio predecessore».
Bilancio di nove stagioni Il resoconto di Lissner si apre all'insegna della stabilità finanziaria: «Sono sempre stato convinto che non può esistere sviluppo artistico durevole che possa prescindere dall'equilibrio finanziario. Nel 2005 ho preso il Teatro alla Scala con 32 milioni di euro di patrimonio netto disponibile e lo lascerò con 35 milioni di netto disponibile». Si tratta di un aumento del 10%, che si articola attraverso varie voci di bilancio. La contrazione del 4% dei contributi pubblici (oggi al 37% contro il 41% del 2005) è stata controbilanciata da uno speculare aumento dei contributi privati (oggi al 63%); su questo punto Lissner si toglie alcuni 'sassolini' dalla scarpa: «In questi ultimi giorni mi hanno dato fastidio alcune cose scritte dai giornali, riguardo al contributo straordinario che la Scala avrebbe ricevuto ogni anno. Noi abbiamo fatto nove bilanci su un totale di più di 950 milioni di euro, e in dieci anni abbiamo ricevuto 3,8 milioni di contributo straordinario. Non soltanto quindi non abbiamo ricevuto contributi straordinari ogni anno, ma abbiamo dovuto recuperare, durante l'anno 2013, 8 milioni legati a problemi del FUS e dei nostri fondatori privati. Oggi la Scala ha, su un bilancio di 115 milioni di euro, 43 milioni provenienti da privati - ho letto che si può fare molto di più... auguri! -, 30 milioni di biglietteria e circa 40 milioni di contributi pubblici, di cui 28 dallo Stato, che significa meno del 25% del totale. Il contributo dello Stato italiano oggi è minore di quello che riceve il Covent Garden, un teatro di tradizione anglosassone che per definizione si regge quasi solamente sui privati. Oggi, con il 63% di finanziamenti privati, la Scala è un caso unico in Europa. Io lo considero un risultato miracoloso, nella situazione in cui siamo». Tra le voci di aumento c'è il cosiddetto margine di contribuzione artistico, cioè la differenza tra i ricavi e le spese degli spettacoli, che non tiene conto delle spese di produzione: esso è più che raddoppiato in nove anni (da 5 a quasi 11 milioni di euro), per effetto anche di operazioni di contenimento delle spese vive e dei cachet; i ricavi da biglietteria e abbonamenti sono passati da 21,6 a 30,3 milioni (40%), per effetto sia dell'aumento degli abbonati, sia del prezzo dei biglietti che si è reso necessario per fronteggiare il calo dei finanziamenti. Continua Lissner: «Un altro dato importante è che siamo riusciti a diminuire il costo del personale, il che non significa aver fatto una politica contro i nostri 800 dipendenti. Significa semmai che è stato fatto un lavoro rigoroso, nel quadro di un dialogo sociale non sempre facile e volto a raggiungere accordi sindacali, per arrivare a risparmiare su alcuni costi: per esempio attraverso la gestione delle ferie in modo più spalmato durante l'anno».
Sul versante artistico, la gestione Lissner ha visto 172 produzioni, di cui 117 opere 55 balletti. 26 sono state le co-produzioni, distinguendo in questo numero le co-produzioni 'classiche' e gli 'scambi culturali' attuati tra la Scala ed altri teatri (come ad esempio il caso dello scambio tra La donna senz'ombra e Les Troyens con il Covent Garden). Lissner difende questa scelta come la vera novità impressa dalla sua direzione artistica, che consente di ampliare l'offerta di titoli risparmiando sui costi di produzione e allo stesso tempo favorendo la circolazione di produzioni valide. A commento di un dato emerso dal sondaggio condotto recentemente da "Classic Voice", che attesterebbe lo scarso gradimento del pubblico degli allestimenti di titoli italiani, Lissner ammette: «Da parte mia forse non sono riuscito a mettere insieme i diversi ingredienti (registi, direttori, cantanti) in un modo che potessero funzionare per il pubblico milanese. Ne sono sicuramente responsabile, ma credo anche che alla Scala vi siano dei fattori più complessi che fanno sì che l'opera italiana, proposta con sguardi nuovi e sperimentali, non abbia successo anche quando funziona in altri teatri italiani. A Milano si fa confusione tra conservatorismo e senso della tradizione. Ci sono cantanti che si sono rifiutati di venire a cantare qui il repertorio italiano per paura di essere fischiati. Un discorso analogo vale per la difficoltà che hanno direttori e registi giovani italiani a essere apprezzati alla Scala, a differenza di quanto avveniva in passato, quando a 25 anni debuttavano gli Abbado o i Maazel. Io mi sono preso la responsabilità di presentare in questi anni quasi tutti i giovani direttori d'orchestra, registi e cantanti italiani. Se poi non hanno avuto successo ciò non può essere solo dovuto solo a miei sbagli».
L'importanza di un teatro pubblico «Amo molto questo teatro, è la più bella esperienze professionale che ho vissuto fino a oggi. Per me è stata un'esperienza unica, mi mancherà molto questa adrenalina, questa follia (ride)». Come prima figura, nella storia della Scala, ad accorpare le cariche di sovrintendente e direttore artistico, la visione di Lissner lascerà sicuramente un segno sul futuro del teatro. «Per me la cosa più importante è che esso rimanga pubblico. Lo spirito di un teatro pubblico è quello della trasmissione di cultura, dell'espansione del repertorio, del supporto della formazione con l'Accademia, non contano solo i numeri e fare ciò che vende di più. 'Italianità' significa difendere la tradizione bicentenaria della Scala come istituzione pubblica, non far cantare l'opera italiana solo da cantanti italiani. Dieci anni sono il periodo giusto perché un sovrintendente possa imprimere il suo corso, quindi è giusto che si cambi. La situazione italiana è complessa perché è anche unica: la Scala è l'unico teatro nazionale in Europa che non ha un rapporto diretto progettuale con il Ministero del proprio paese. Il presidente della Fondazione è il Sindaco di Milano, questa è una grossa differenza rispetto agli altri paesi. Il fatto che la Scala sia a Milano e non nella capitale e che il sovrintendente non ricavi la sua legittimità dal ministero ma dal comune, fa sì che vi sia una maggiore distanza con la politica culturale del paese. Il progetto che ho lanciato sull'autonomia della Scala è inteso come un modo per incardinare meglio l'attività del teatro con quella del Governo. Per come la vedo io, l'autonomia è un modo di legarsi maggiormente alla politica nazionale, di creare un ponte tra la Scala e il ministero. Storicamente fu fatto l'errore di costituire la Fondazione di diritto privato, un passaggio assolutamente non necessario che ha lanciato un messaggio sbagliato al Governo. Il motivo della creazione della Fondazione era per trovare soldi dei privati, ma allora perché gli altri teatri europei non hanno dovuto ricorrere a questo? Dobbiamo condurre una lotta, una guerra contro i ministeri che riducono i finanziamenti: il primo principio del teatro pubblico è rifiutare la privatizzazione, un ministro deve difendere la politica culturale del suo paese e aiutare l'istituzione pubblica, questo è il suo lavoro. Non è il suo lavoro chiederci di trovare i soldi dei privati; poi c'è il punto di vista di chi dice che non ci sono più soldi, ma l'Italia dà lo 0,6% del proprio bilancio alla cultura, la scelta di cambiare questa cifra è esclusivamente politica, non è dovuta alla crisi».
Lissner e Pereira Alla domanda sul perché il passaggio di testimone non stia funzionando, contrariamente a quanto è accaduto in Francia, Lissner risponde: «Perché è la prima volta che la Scala fa una transizione di questo tipo. Questo modo di operare transizioni sull'arco di due o tre anni è necessario, lo è in tutte le istituzioni e i festival più importanti d'Europa». Ma poi, quando gli si chiede perché il Cda non abbia stabilito regole più chiare sui poteri e sui diritti di firma del sovrintendente 'in pectore', replica con un laconico: «Chiedetelo al Cda». Accanto alle lettere tra Pereira e la presidente del Festival di Salisburgo Helga Rabl-Stadler, c'è poi la lettera del settembre 2013 di Lissner a Pereira, che alcuni giornali italiani hanno usato per muovergli accuse di conflitto d'interessi analoghe a quelle sollevate da "Repubblica" nei confronti del direttore austriaco. In essa Lissner, su carta intestata dell'Opéra di Parigi avallava, in qualità di sovrintendente entrante con diritto di firma, l'entrata della Scala e del Met nella co-produzione dei "Maestri cantori" accanto all'Opéra e a Salisburgo. Prima di chiudersi in un no-comment, Lissner non manca di far notare seccamente che tale accordo si riferiva a una co-produzione avviata dal sovrintendente uscente dell'Opéra, Nicolas Joel. In attesa quindi che il Cda della Scala si pronunci sul caso Pereira, certo è che l'argomento non trova particolarmente sereno Lissner, che evidentemente non ha gradito i pesanti cambiamenti voluti dal suo probabile successore sulla prossima stagione, soprattutto in riferimento alla programmazione straordinaria per il semestre Expo, che Lissner aveva già definito e presentato al consiglio d'amministrazione con il bilancio in pareggio. La frecciata è puntuale: «Io sono stato nominato all'Opéra di Parigi e non ho cambiato nessuno spettacolo della stagione del prossimo anno decisa dal mio predecessore».
Bilancio di nove stagioni Il resoconto di Lissner si apre all'insegna della stabilità finanziaria: «Sono sempre stato convinto che non può esistere sviluppo artistico durevole che possa prescindere dall'equilibrio finanziario. Nel 2005 ho preso il Teatro alla Scala con 32 milioni di euro di patrimonio netto disponibile e lo lascerò con 35 milioni di netto disponibile». Si tratta di un aumento del 10%, che si articola attraverso varie voci di bilancio. La contrazione del 4% dei contributi pubblici (oggi al 37% contro il 41% del 2005) è stata controbilanciata da uno speculare aumento dei contributi privati (oggi al 63%); su questo punto Lissner si toglie alcuni 'sassolini' dalla scarpa: «In questi ultimi giorni mi hanno dato fastidio alcune cose scritte dai giornali, riguardo al contributo straordinario che la Scala avrebbe ricevuto ogni anno. Noi abbiamo fatto nove bilanci su un totale di più di 950 milioni di euro, e in dieci anni abbiamo ricevuto 3,8 milioni di contributo straordinario. Non soltanto quindi non abbiamo ricevuto contributi straordinari ogni anno, ma abbiamo dovuto recuperare, durante l'anno 2013, 8 milioni legati a problemi del FUS e dei nostri fondatori privati. Oggi la Scala ha, su un bilancio di 115 milioni di euro, 43 milioni provenienti da privati - ho letto che si può fare molto di più... auguri! -, 30 milioni di biglietteria e circa 40 milioni di contributi pubblici, di cui 28 dallo Stato, che significa meno del 25% del totale. Il contributo dello Stato italiano oggi è minore di quello che riceve il Covent Garden, un teatro di tradizione anglosassone che per definizione si regge quasi solamente sui privati. Oggi, con il 63% di finanziamenti privati, la Scala è un caso unico in Europa. Io lo considero un risultato miracoloso, nella situazione in cui siamo». Tra le voci di aumento c'è il cosiddetto margine di contribuzione artistico, cioè la differenza tra i ricavi e le spese degli spettacoli, che non tiene conto delle spese di produzione: esso è più che raddoppiato in nove anni (da 5 a quasi 11 milioni di euro), per effetto anche di operazioni di contenimento delle spese vive e dei cachet; i ricavi da biglietteria e abbonamenti sono passati da 21,6 a 30,3 milioni (40%), per effetto sia dell'aumento degli abbonati, sia del prezzo dei biglietti che si è reso necessario per fronteggiare il calo dei finanziamenti. Continua Lissner: «Un altro dato importante è che siamo riusciti a diminuire il costo del personale, il che non significa aver fatto una politica contro i nostri 800 dipendenti. Significa semmai che è stato fatto un lavoro rigoroso, nel quadro di un dialogo sociale non sempre facile e volto a raggiungere accordi sindacali, per arrivare a risparmiare su alcuni costi: per esempio attraverso la gestione delle ferie in modo più spalmato durante l'anno».
Sul versante artistico, la gestione Lissner ha visto 172 produzioni, di cui 117 opere 55 balletti. 26 sono state le co-produzioni, distinguendo in questo numero le co-produzioni 'classiche' e gli 'scambi culturali' attuati tra la Scala ed altri teatri (come ad esempio il caso dello scambio tra La donna senz'ombra e Les Troyens con il Covent Garden). Lissner difende questa scelta come la vera novità impressa dalla sua direzione artistica, che consente di ampliare l'offerta di titoli risparmiando sui costi di produzione e allo stesso tempo favorendo la circolazione di produzioni valide. A commento di un dato emerso dal sondaggio condotto recentemente da "Classic Voice", che attesterebbe lo scarso gradimento del pubblico degli allestimenti di titoli italiani, Lissner ammette: «Da parte mia forse non sono riuscito a mettere insieme i diversi ingredienti (registi, direttori, cantanti) in un modo che potessero funzionare per il pubblico milanese. Ne sono sicuramente responsabile, ma credo anche che alla Scala vi siano dei fattori più complessi che fanno sì che l'opera italiana, proposta con sguardi nuovi e sperimentali, non abbia successo anche quando funziona in altri teatri italiani. A Milano si fa confusione tra conservatorismo e senso della tradizione. Ci sono cantanti che si sono rifiutati di venire a cantare qui il repertorio italiano per paura di essere fischiati. Un discorso analogo vale per la difficoltà che hanno direttori e registi giovani italiani a essere apprezzati alla Scala, a differenza di quanto avveniva in passato, quando a 25 anni debuttavano gli Abbado o i Maazel. Io mi sono preso la responsabilità di presentare in questi anni quasi tutti i giovani direttori d'orchestra, registi e cantanti italiani. Se poi non hanno avuto successo ciò non può essere solo dovuto solo a miei sbagli».
L'importanza di un teatro pubblico «Amo molto questo teatro, è la più bella esperienze professionale che ho vissuto fino a oggi. Per me è stata un'esperienza unica, mi mancherà molto questa adrenalina, questa follia (ride)». Come prima figura, nella storia della Scala, ad accorpare le cariche di sovrintendente e direttore artistico, la visione di Lissner lascerà sicuramente un segno sul futuro del teatro. «Per me la cosa più importante è che esso rimanga pubblico. Lo spirito di un teatro pubblico è quello della trasmissione di cultura, dell'espansione del repertorio, del supporto della formazione con l'Accademia, non contano solo i numeri e fare ciò che vende di più. 'Italianità' significa difendere la tradizione bicentenaria della Scala come istituzione pubblica, non far cantare l'opera italiana solo da cantanti italiani. Dieci anni sono il periodo giusto perché un sovrintendente possa imprimere il suo corso, quindi è giusto che si cambi. La situazione italiana è complessa perché è anche unica: la Scala è l'unico teatro nazionale in Europa che non ha un rapporto diretto progettuale con il Ministero del proprio paese. Il presidente della Fondazione è il Sindaco di Milano, questa è una grossa differenza rispetto agli altri paesi. Il fatto che la Scala sia a Milano e non nella capitale e che il sovrintendente non ricavi la sua legittimità dal ministero ma dal comune, fa sì che vi sia una maggiore distanza con la politica culturale del paese. Il progetto che ho lanciato sull'autonomia della Scala è inteso come un modo per incardinare meglio l'attività del teatro con quella del Governo. Per come la vedo io, l'autonomia è un modo di legarsi maggiormente alla politica nazionale, di creare un ponte tra la Scala e il ministero. Storicamente fu fatto l'errore di costituire la Fondazione di diritto privato, un passaggio assolutamente non necessario che ha lanciato un messaggio sbagliato al Governo. Il motivo della creazione della Fondazione era per trovare soldi dei privati, ma allora perché gli altri teatri europei non hanno dovuto ricorrere a questo? Dobbiamo condurre una lotta, una guerra contro i ministeri che riducono i finanziamenti: il primo principio del teatro pubblico è rifiutare la privatizzazione, un ministro deve difendere la politica culturale del suo paese e aiutare l'istituzione pubblica, questo è il suo lavoro. Non è il suo lavoro chiederci di trovare i soldi dei privati; poi c'è il punto di vista di chi dice che non ci sono più soldi, ma l'Italia dà lo 0,6% del proprio bilancio alla cultura, la scelta di cambiare questa cifra è esclusivamente politica, non è dovuta alla crisi».