Dopo un'estate ricca di temi e stimoli (nonché delle immancabili, annesse, polemiche) per il jazz italiano, le prime settimane d'autunno stanno registrando l'uscita di molti bellissimi dischi, che testimoniano un felice momento della scena musicale di casa nostra.
Iniziamo dal pianista fiorentino Simone Graziano, che sforna un eccellente disco come Trentacinque (Auand), con una formazione che conferma quasi completamente quella del precedente Frontal, con Dave Binney al contralto, Dan Kinzelman al tenore al posto di Chris Speed, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria.
Graziano sembra avere raggiunto una felicissima maturità compositiva, che si manifesta non solo in strutture e temi efficaci, ma anche nella capacità di fare respirare il quintetto secondo coordinate che riprendono alcune delle irrequietezze delle migliori esperienze newyorkesi di oggi per esplorare atmosfere molto differenti (dalla sfaccettata "B-Polar" al funk colemaniano di "Give Me Some Options"), ma sempre emozionanti. Uno dei migliori dischi dell'anno.
Colpisce anche il nuovo lavoro del chitarrista Francesco Diodati, quest'anno agli onori delle cronache anche per il suo ruolo centrale nel nuovo gruppo di Enrico Rava. Flow Home (Auand) vive innanzitutto della felice scelta timbrica, con una formazione che oltre a Diodati vede impegnati il trombettista Francesco Lento, la tuba di Glauco Benedetti, il pianoforte di Enrico Zanisi e la batteria di Enrico Morello.
Musicista che fa un uso sapiente delle risorse timbriche del proprio strumento e che, forse in ragione di questo, lavoro molto sugli spazi, Diodati rivela nelle nove belle composizioni del disco (una è una rilettura della monkiana "Played Twice") una capacità di tessere atmosfere inquiete e calde al tempo stesso (un po' "friselliane" per darvi un'idea), capaci di accensioni taglienti come in "Lost" o di un melodiare sornione come in "Flow". Autunnale e molto bello.
Un altro lavoro che racconta al meglio la fantasia di alcuni dei migliori musicisti di casa nostra è La fabbrica dei botti (Caligola) del violista e banjoista Paolo Botti, che raduna attorno a sé uno scoppiettante settetto con Luca Calabrese (tromba), Tony Cattano (trombone), Dimitri Grechi Espinoza e Edoardo Marraffa (sax), Tito Mangialajo Rantzer (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria).
Si respira un'atmosfera intrisa di blues in questa musica: attraverso una polifonia che richiama sia le radici del primo jazz che la coralità mingusiana, Botti e i suoi complici si fanno narratori di una emozionalità che è viscerale senza perdere la lucidità architettonica complessiva, che guarda l'America da una prospettiva italiana e, come accade quando si osserva una ruota girare, dopo un po' sembra anche l'opposto. Disco polveroso e adorabile.
Ritroviamo Botti anche nel quartetto della contrabbassista Silvia Bolognesi, che guarda anch'essa alle radici con una consapevole personalità. Il disco si chiama Protection Sounds (Fonterossa Records) e con la musicista toscana e Botti ci sono Achille Succi alla ance e Andrea Melani alla batteria, a comporre il gruppo JuJu Sound.
Anche qui lo sguardo alle radici è centrale: a partire dal concetto stesso di juju, in stretta connessione con la magia di origine africana, passando per titoli che a queste atmosfere stregonesche fanno riferimento ("Jinx", "Spells"), per ritrovare una sorta di ritualità delle piccole cose, intima e in grado di essere forza guaritrice, come diceva Ayler. Missione compiuta.
Ha riferimenti precisi nella musica folk Americana, più specificatamente nella figura di Woody Guthrie, il nuovo lavoro del Francesco Bearzatti Tinissima 4et, This Machine Kills Fascists (CamJazz). Il sassofonista friulano - come sempre affiancato da Giovanni Falzone alla tromba e dalla coppia ritmica Gallo/De Rossi - ha immaginato per questo progetto un vero e proprio viaggio attraverso la memoria dei paesaggi e delle storie che Guthrie ha attraversato.
Storie che profumano di blues, di pianure attraversate da treni sbuffanti e da individui con nulla da perdere, storie che pur vestendosi di volta in volta con i costumi sonori del tempo risultano fresche e immediate, grazie alla facilità di tutti i musicisti (cui si aggiunge Petra Magoni alla voce nella dolente "One For sacco and Vanzetti") di calarsi nel flusso della narrazione.
Colorato di sfumature decisamente mediterranee è invece il mondo del sassofonista Raffaele Casarano, che fa muovere la sua musica nello spazio di una Medina (Tŭk Music) intesa come mondo in movimento, città alla ricerca di scambi continui, come la Venezia effigiata in copertina da un bel disegno di Anna Sutor.
Con Casarano troviamo Mirko Signorile al pianoforte, Marco Bardoscia al contrabbasso, Cristiano Calcagnile alla batteria, Alessandro Monteduro alle percussioni, Erik Honoré all'elettronica e l'Orchestra Sinfonica Tito Schipa, che avvolge i brani con volute di archi di chiaro sapore cinematografico. Grandi aperture melodiche, sapori di mare e di sole, una formula non troppo avventurosa, ma assecondata con grande spontaneità.
Queste settimane vedono anche l'uscita del nuovo disco di una figura singolare nel panorama del jazz italiano come il compositore Dino Betti Van Der Noot, che in Notes Are But Wind (Stradivarius) ha affidato alla sua orchestra tre brani nuovi e due riletture di temi di qualche anno fa.
Quella di Betti è una musica piena di colori orchestrali, che sfugge alle definizioni e che trova in solisti ispirati come Alberto Mandarini, Luca Begonia o Tiziano Tononi (per citarne solo una manciata) dei complici giocosi e ispirati. Piacere collettivo.
Su terreni decisamente più sperimentali, ma non certamente meno stimolanti, si muove il pianista Nicola Guazzaloca, che ha pubblicato ora di un suo recital solista tenutosi durante il festival Angelica nel 2014.
Tecniche arcaiche - Live in Angelica (Aut/Amirani) riprende un lavoro giù pubblicato in studio e in cui il pianoforte, sollecitato con preparazioni e modalità che ne esplorano tutto il potenziale di macchina sonora.
Un viaggio affascinante, da provare.
Altro lavoro solista di grande fascino è Meats (Setola di Maiale) del flautista Massimo De Mattia. Si tratta di una serie di pezzi prevalentemente brevi, che esplorano le potenzialità pneumatiche, oltre che melodiche dello strumento. I riferimenti alla matericità della carne trovano nella flessibilità di De Mattia, nel suo virtuosismo mai fine a se stesso, una stimolante vertigine prospettica. Avventuroso
Chi volesse ampliare la propria conoscenza del lavoro del flautista friuliano può trovare molte risposte nel doppio Skin (Caligola), nel quale si misura con differenti situazioni, dal trio con voce e contrabbasso al quartetto (splendidi i pezzi con Giovanni Maier, Zlatko Kaucic e Bruno Cesselli), in duetti e trii che ne stimolano gli approcci più articolati.
Chiudiamo questa nostra carrellata autunnale segnalando un bel disco a nome della cantante Marta Raviglia, in duo con il pianista Simone Sassu, ma con un decisivo utilizzo dell'elettronica. Il disco si intitola Lost Songs (A Simple Lunch) e si snoda tra melodie di Erik Satie e Duke Ellington, di Darius Milhaud e di Luciano Berio, ma anche di Kurt Weill o di Kenny Wheeler, di cui viene riproposta la splendida Sea Lady.
Un viaggio in cui, oltre alla bellezza del materiale di partenza, c'è una capacità di intrecciare piani di lettura novecenteschi con intelligenza e ironia, senza vezzi postmodernisti, ma anzi attivando una piccola serie di cortocircuiti sonici che sono il favore migliore che si può fare a queste musiche. Che bello.