Il respiro creativo di Filippo Vignato

Intervista al giovane trombonista: i progetti e la scena italiana di oggi

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Tra i jazzisti italiani più interessanti sotto i trent’anni (li compirà nel 2017) c’è sicuramente il trombonista Filippo Vignato, musicista che dopo alcuni anni di formazione all’estero – e forse anche grazie a quelli – sta rapidamente facendosi conoscere non solo come ottimo strumentista e improvvisatore, ma anche come leader con le idee chiare.

Lo conferma il nuovo disco, Plastic Breath, registrato per la Auand con un trio italo-franco-ungherese completato dal tastierista Yannick Lestra e dal batterista Attila Gyarfas. Un lavoro in cui la peculiare potenzialità timbrica della formazione (cui l’aggiunta dell’elettronica dona ulteriore flessibilità) trova nei temi e nelle strutture aperte delle composizioni le migliori opportunità per costruire una musica di grande freschezza e efficacia, ponte ideale verso ascoltatori che vengono anche da percorsi lontani dal jazz.
Abbiamo pensato che l’uscita di questo lavoro fosse anche una buona occasione per conoscere meglio il percorso e le idee di Vignato, che abbiamo coinvolto in una densa chiacchierata.

Partiamo dal nuovo disco, Plastic Breath. Com’è nato il trio e come avete lavorato alla musica che è finita dentro questo disco?
«Il trio è nato un paio d’anni fa durante un mio periodo di residenza a Parigi. Yannick è di Lyon e vive a Parigi da molti anni e ci eravamo conosciuti l’anno precedente al Conservatoire National Superieur de Musique. Attila è ungherese e anche lui in quel momento era a Parigi per qualche mese. Da un po’ avevo in testa l’idea di formare un trio con Fender Rhodes e batteria e dopo aver suonato insieme in qualche session li ho coinvolti. Mi sono sembrati dei musicisti dotati di grande empatia e molto vicini alla mia sensibilità. Così abbiamo iniziato a lavorare regolarmente sia su alcuni brani (soprattutto miei ma anche qualcuno loro) sia sull’improvvisazione libera e ovviamente sul mescolare le due cose. Quello che però si è subito rivelata una sorpresa per me era l’impasto sonoro, il suono del trio. L’avevo in qualche modo già in mente, vista la particolare strumentazione, ma non mi aspettavo che si creasse questa sorta di magia tra noi e i nostri tre strumenti. Due dei brani contenuti del disco – "Provvisorio" e "Windy" - sono stati registrati pochi mesi dopo l’inizio del gruppo ma hanno già una connotazione sonora piuttosto chiara. Nel frattempo abbiamo fatto qualche concerto e il resto dei brani del disco è una selezione dei frutti di una session di registrazione di un paio di giorni fatta a Budapest qualche mese più tardi.
Credo ci sia una naturale attitudine alla spontaneità nel nostro modo di suonare, attitudine facilitata anche dalla libertà improvvisativa concessa da una formazione di questo tipo, dove il ruolo di basso e quello di strumento armonico sono affidati (o a volte omessi) allo stesso musicista. Dal vivo questa inclinazione è ancora più marcata e ci prendiamo grande libertà, pur stando in qualche modo all’interno di un nostro piccolo universo sonoro».



Nelle note di copertina scrivi che il titolo è una metafora sia per ricondurre il presente al centro della narrazione, sia per privilegiare la ricerca di ciò che ancora non si conosce. Ti va di spiegarci meglio come queste idee confluiscono nella musica del trio?
«Il titolo racchiude in sé molteplici rimandi alle idee che hanno dato forma e tuttora permeano la musica del disco. Da suonatore di uno strumento a fiato ho sempre avuto a che fare con il respiro e la respirazione, permettendomi anche di riflettere sul loro significato concettuale al di là del processo bio-fisico. Il respiro per esempio, in qualche modo scandisce il tempo dell’essere vivi, del fare parte del momento presente in cui stiamo respirando e trovo che le musiche improvvisate abbiano allo stesso modo un profondo legame con il presente e il suo essere immobile e in movimento allo stesso tempo. Credo che sia questo a rappresentare il modo in cui io, Attila e Yannick ci approcciamo alla musica in questo trio, vivendo appieno quello che succede nel "momento", a volte all’interno di una qualche cornice, a volte senza di essa. Ovviamente questo spesso porta a strade non prevedibili e in qualche modo sposta l’attenzione sul processo improvvisativo dell’intero trio, piuttosto che dei singoli solisti. Questa idea di dialogo continuo (con le dovute eccezioni) sta alla base della musica del disco».

La bella foto di copertina rappresenta una bolla di sapone nel momento, magico, che intercorre tra la sua formazione e la, presumibilmente rapida, esplosione e scomparsa. Chi si cimenta con musiche che utilizzano l’improvvisazione ben conosce questa sensazione, ma mi piacerebbe anche qualche riflessione da parte tua in questo senso.
«Sì, questo è un altro collegamento con il titolo, la bolla di sapone è in effetti un respiro plastificato, che prende forma. Così come lo sono le idee musicali dell’improvvisatore, il quale le scolpisce in tempo reale nello spazio-tempo del presente sotto forma di un soffio, un gesto, che diventa vibrazione e genera frequenze e quindi suono. E quindi musica, se tutto va bene! Uno degli aspetti che mi interessa e mi stimola di più dell’improvvisazione è proprio la fragilità che deriva dal suo essere così libera e sincera, fragilità da cui può nascere grande poesia e bellezza. Tornando alla copertina, ci tengo molto a citare Giacomo Frison, eccezionale fotografo veneziano che ha realizzato la copertina assieme alla sua compagna Glorija Blazisek».

Leggendo la formazione trombone, piano elettrico e batteria mi è subito venuto alla mente (sebbene differente ovviamente dal tuo) il lavoro che sta facendo in questi anni Brett Sroka con gli Ergo, lo conosci?
«Lo conosco, devo dire non approfonditamente, e trovo molto interessante il progetto Ergo dal punto di vista sonoro e compositivo, per l’uso dei live electronics e per il modo in cui hanno sviluppato un certo tipo di minimalismo/musica ripetitiva».



Hai studiato musica all’estero, oltre che in Italia. Che tipo di visione ti ha dato frequentare un ambiente formativo internazionale?
«Sicuramente aiuta a vedere le cose da un altro punto di vista e credo questo sia sempre un bene. Al Cnsm di Parigi ho riscontrato un ambiente proiettato verso le avanguardie e piuttosto libero da confini di genere e/o appartenenza dove anzi l’interazione tra i diversi "mondi" (classica-jazz, composizione-improvvisazione, musica acustica-sound-design, musica contemporanea-musica antica per fare qualche esempio) svolge un ruolo importantissimo dal punto di vista artistico e formativo. Questo tipo di ambiente ha contribuito a sviluppare in me un certo modo di pensare la musica senza confini o categorie stagne, scritta o improvvisata che sia, e a rifletterne sui significati ed anche sulle sue conseguenze antropologiche e sociologiche».

Quali sono i trombonisti che più ti hanno influenzato e quelli di oggi che ti sembrano più interessanti in una prospettiva di rinnovamento del linguaggio dello strumento?
«I trombonisti che amo e che mi hanno influenzato direttamente o indirettamente sono davvero molti. Sicuramente uno di quelli che mi sta più a cuore è Albert Mangelsdorff, del quale ho anche trascritto molta musica che mi diverte moltissimo suonare di tanto in tanto con formazioni molto diverse. Un altro gigante che mi ha influenzato molto è Ray Anderson, come trombonista ma anche come musicista in senso più lato. Più indirettamente George Lewis, Roswell Rudd. Glenn Ferris. Gli ellingtoniani Lawrence Brown e Tricky Sam Nanton, che ha fatto scuola sull’uso delle sordine. Un altro che mi ha davvero impressionato, soprattutto alla scoperta del suo disco in solo The Gentle Harm of The Bourgeoisie, è Paul Rutherford, un avanguardista inglese di assoluto spessore e fortissima coerenza. Per inciso, fu fondatore del gruppo di improvvisazione radicale Iskra 1903 con Derek Bailey e Barry Guy nel 1970. Per tornare alle influenze, all’inizio ero fissato con J.J. Johnson, un po’ come tutti i trombonisti che iniziano ad avvicinarsi al jazz. Comunque sono solo alcuni, ed in effetti tutti molto diversi tra loro, dei quali ho cercato di assorbire non soltanto il linguaggio musicale ma il loro intero mondo musicale, la loro poetica, le idee, i sentimenti e i contesti che stanno dietro a quel linguaggio – assolutamente speciale e unico – di ognuno di loro. Tra i contemporanei, in una prospettiva di rinnovamento del linguaggio dello strumento (anche se credo sia molto un argomento molto delicato) mi vengono in mente Jacob Garchik, Gianluca Petrella, Samuel Blaser, Michael Dessen».

Nel panorama musicale italiano mi sembra esista tra i musicisti della tua generazione una rinnovata capacità di cercarsi e supportarsi. Fai parte della Rebel Band di Giovanni Guidi, ma so che anche stai lavorando con Francesco Diodati, con Rosa Brunello, oltre che con Piero Bittolo Bon che ha qualche anno di più. Che tipo di energie e sentimenti ti sembra si stiano condividendo in queste avventure, ben sapendo che il “sistema” complessivo non è certamente facile o accogliente?
«Devo dire che le energie e i sentimenti mi sembrano molto intensi e molto positivi e scaturiscono da una comunità (se così si può chiamare) più ampia molto florida e vivace. C’è supporto, capacità di cercarsi, interesse, scambio e comunicazione. E al tempo stesso la capacità di differenziarsi, di trovare la propria strada. Difficile trovare un progetto del jazz italiano di questa generazione che suoni "simile" a un altro. Dal mio punto vista, forse troppo ottimista, questo fermento in continua espansione e crescita artistica non potrà che giovare ad un ambiente / sistema complessivo come dici tu non facile o accogliente, e aggiungerei spesso claudicante e affaticato per ragioni di varia sorta (economiche, riscontro del pubblico, supporto delle istituzioni). Trovo molto positivo anche il fatto che esistano sempre più gruppi stabili transnazionali, come i Travelers di Matteo Bortone, il trio di Giovanni Guidi, Frontal di Simone Graziano, il nuovo trio che abbiamo con Francesco Diodati e il batterista francese Ariel Tessier, i Roosters di Danilo Gallo, dove l’incontro tra culture e background diversi stimola ed aiuta la creatività e lo sviluppo artistico. Personalmente poi, suonare nei progetti che hai citato e in tutti gli altri progetti collettivi o dove sono sideman, è per me altrettanto importante che sviluppare i miei progetti da leader. Sono preziose occasioni di crescita, di condivisione e di scambio, tanto a livello musicale quanto a livello umano».

Il gruppo Mof è ancora attivo? Raccontaci un po’ anche la tua collaborazione nel quartetto di Rosa Brunello, nei Bread&Fox e in quell’ottimo gruppo che è il collettivo con cui hai registrato Malkuth per la RudiRecords
«Con i Mof, band nata nell’ormai lontano 2008, abbiamo fatto gli ultimi concerti la scorsa estate attraverso il progetto "We-Insist" di Midj. Il gruppo è ancora attivo, e nonostante nell’ultimo anno ognuno di noi si sia concentrato su altre cose, ci sono svariate idee in cantiere per il suo seguito. Con Rosa abbiamo una lunga "storia" mai interrotta, iniziata qualche anno fa con il quintetto Omit Five e che continua tuttora in diversi progetti, tra i quali Consonance e il suo quartetto Los Fermentos, di cui è uscito il disco Upright Tales lo scorso maggio. Negli anni si è sviluppata una grande amicizia e credo che questo disco esprima appieno la sua personalità e la sua poetica in modo molto sincero. Anche io ho contribuito con un paio di brani scritti apposta per il gruppo, nel flusso della direzione indicata dalla carismatica leader.
Nei Bread&Fox, il cui primo album uscirà tra pochi giorni, la musica è tutta composta dal leader Piero Bittolo Bon, un altro interessantissimo personaggio del panorama odierno. Interessante anche perché assieme a una nutrita schiera di – più o meno – suoi coetanei tra cui cito per esempio Alfonso Santimone, anche lui nei Bread&Fox – ha in qualche modo aperto e indicato a noi generazione successiva alcune strade riguardanti il fare ma anche il pensare, il vivere ed il contestualizzare le "musiche improvvisate", le loro implicazioni e le loro derivazioni. Ammiro molto la profonda ricerca compositiva e l’ironia dissacrante che caratterizzano un po’ tutta la sua produzione, compreso questo progetto.
Malkuth è un disco eponimo. Abbiamo a lungo riflettuto per trovare un titolo per il disco che ci piacesse ma non ce l’abbiamo fatta e così è Malkuth e basta. Scherzi a parte, questa scelta è specchio di una musica molto diretta, sincera e senza fronzoli, che non vuol sembrare nulla di diverso da quello che è. Il gruppo, formato oltre a me da Mirko Cisilino alla tromba, Filippo Orefice al sax tenore, Mattia Magatelli al contrabbasso e Alessandro Mansutti alla batteria è in piedi da più di tre anni ed abbiamo sempre focalizzato il nostro lavoro sull’improvvisazione collettiva, che avviene in un flusso piuttosto costante dove posso spuntare i brani o spezzoni dei brani (tutti originali) che abbiamo in repertorio, ogni volta rimescolati e ridiscussi in tempo reale. Essendo un quintetto non è sempre semplice agire in questo modo ma abbiamo sviluppato una certa agilità nel seguirci, ascoltarci e cambiare direzione insieme repentinamente quando ce n’è bisogno. Anche il disco, che è uscito nel dicembre 2015, è stato registrato così, selezionando poi i momenti migliori di svariate improvvisazioni collettive che a loro volta contengono alcuni brani. Il 30 novembre prossimo debutteremo a San Vito al Tagliamento (PN) in una nuova produzione teatrale assieme a Vitaliano Trevisan, scrittore, drammaturgo e attore vicentino».



Cosa gira sul piatto/cd/iPod di Filippo Vignato in queste settimane?
«In queste ultime settimana di tarda estate sono girati, in ordine piuttosto casuale, Radiohead, Michael Dessen Trio, Matteo Bortone Travelers, la Led Zeppelin Suite di Giovanni Falzone, String Quartets 1&2 di Ligeti, Lennart Heyndels’ How Town, Giorgio Pacorig e Zeno De Rossi Sleep Talking, Slickaphonics, Bill Frisell (When I Wish upon a Star), il trio di Paul Motian, Bill Frisell e Joe Lovano, Kaja Draksler, Dj Shadow, Anderson Paak, Can You Hear Me del Joëlle Leandre Tentet».

Quali sono i tuoi prossimi impegni?
«Per quanto riguarda Plastic Breath saremo in concerto ad ottobre il 26 al Panic Jazz Club di Marostica, il 28 al Barazzo Live a Bologna e il 30 allo Spazio Aereo di Mestre, in quest’ultima con il vulcanico Giovanni Falzone come ospite. Un paio di appuntamenti con il trio sono previsti anche per il weekend del 15-16 ottobre ma ancora non posso svelare di più. Durante il mese di settembre uscirà anche il nuovo disco di Ada Montellanico Abbey’s Road di cui è un onore far parte accanto a Giovanni Falzone, Matteo Bortone ed Ermanno Baron e di cui presto verranno annunciati concerti di presentazione. Poi fino alla fine dell’anno svariati concerti con Bread&Fox, Rosa Brunello, Malkuth e altri progetti, per saperne di più invito a visitare il mio sito, che è sempre piuttosto aggiornato».

In apertura: foto di Giacomo Frison

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