Sarà la freschezza che la musica del gruppo continua a emanare. Sarà che le visioni date dai frutti amazzonici e dalle intuizioni afrofuturiste tendono a annullare la cognizione del tempo. Sarà quel che è, ma a me sembra che questi dieci anni – e cinque dischi, a partire dal primo, indimenticabile Sauna: Um, Dois, Três – siano volati e che le sonorità di Mazurek e soci continuino a evocare l’urgenza del presente.
Quale miglior medicina del loro pazzesco concerto (nei prossimi giorni saranno al Festival Jazz&Wine di Cormòns, domenica 30 ottobre, e al Centro Candiani di Mestre venerdì 4 novembre, non perdeteveli!) o del loro nuovo disco, Cantos Invisíveis, uscito in questi giorni per l’etichetta Cuneiform.
L’armamentario dei musicisti è di quelli che non lasciano dubbi: oltre alla cornetta, Rob Mazurek maneggia qui diversi sintetizzatori e percussioni, il batterista Mauricio Takara è anche un esperto suonatore di cavaquinho, la piccola chitarra immancabile nella musica popolare brasiliana, il fantastico Guilherme Granado si destreggia tra ogni sorta di tastiera e sintetizzatore e Thomas Rohrer suona la rabeca (grande violino usato nel forrò), flauti e sassofoni, elettronica e percussioni.
Elemento essenziale sono anche le voci, che in questo lavoro assumono un ruolo di grande forza espressiva all’interno di un sound che si muove tra psichedelia tropicalista, nuovo tribalismo, ritualità arkestrali e il tipico lirismo agrodolce che conosciamo alla cornetta di Mazurek.
Non è un caso che lo stesso musicista tenga a precisare che «la qualità vocale di questa musica grida invocando amore e compassione, le gioie e i dolori della vita», in quella che lui stesso definisce una street parade per tutti.
È importante sottolineare questi aspetti, che forse suoneranno superflui per chi già ha avuto il piacere di seguire un concerto del gruppo, ma che giova ripetere per evitare che il mondo sonoro di São Paulo Underground venga associato a altre, pur interessantissime, esperienze musicali di sapore trasversale postmodernista.
Quello che colpisce (e il nuovo disco lo conferma appieno) è piuttosto la forza inclusiva di questa musica, la vibrante umanità che esce da cavalcate come "Estrada Para O Este" o da una gemma “orientalista” come "Cambodian Street Carnival", che riconnettono l’ascoltatore a una iteratività fisica e ritualistica che talvolta le musiche più avventurose sembrano avere abbandonato a ambiti quali l’elettronica da club, e che invece rinsaldano una sorta di arcaica complicità tra gli esploratori sonori e i “passeggeri” della loro astronave sonica.
In questa prospettiva, anche lo stesso concetto di "canto” o "canzone" (invisibile e elusiva, come dice il titolo del disco) trova qui la possibilità di scomparire e riapparire in quella che Mazurek chiama evocativamente una «nuvola rosa nel cielo» e che in fondo racconta in modo emozionante le continue relazioni che chiunque sperimenta quotidianamente tra i sentimenti personali e il "brusio" del mondo.
Non mancano infatti momenti in cui le tessiture elettroniche, le tracce fantasmatiche di voci e percussioni, costituiscono un intrico dal sapore profondamente urbano, ma la magia della musica di São Paulo Underground consiste nel fare emergere ogni volta (e ogni volta in modo originale e inaspettato) il brandello di una melodia, il cullarsi di un frammento di dolcezza (esemplare in questo senso è "Of Golden Summer"), una scintilla di bellezza pura.
In questo forse São Paulo Underground riesce a riportare a "terra" (sembra una facile metafora, ma alla fine è così) quello che era il grande disegno di Sun Ra – e che magari la peculiare originalità del "maestro" ha proiettato verso cieli di più urticante e apparentemente "lontana" visionarietà. Lo riporta in mezzo agli uomini e le donne che vogliono strapparsi dall’alienazione e rimettersi a ballare, un po’ come se la navicella fosse caduta in mezzo a una festa popolare ai confini dell’Amazzonia.
E allora buon decimo compleanno São Paulo Underground! Il nuovo disco è una vera meraviglia – e così immagino saranno i concerti – e la musica di questo gruppo, che le categorizzazioni organizzative continuano a rubricare sotto l’ampio ombrello del jazz, è in realtà patrimonio di ogni essere umano capace di connettere cuore, pancia e orecchie in quella terra di mezzo che danza tra gli oceani e il cielo.
In apertura: foto di Ziga Koritnik