Roberto De Simone, musicista antropologo
Un ritratto all’indomani della scomparsa

Se n’è andato il 6 aprile 2025, a 91 anni, Roberto De Simone. È difficile tentarne un ritratto, tante erano le aree di creatività e di studio che occupavano la sua intelligenza. Forse la cosa più semplice è partire dal centro, dallo spettacolo che ha consacrato il suo nome, La gatta Cenerentola (1976), inclassificabile forma di teatro basata su musiche, gesti, canti e ritualità popolari di Napoli e dell’area campana, raccolti dal De Simone antropologo, rielaborati dal De Simone compositore e messi in scena dal De Simone regista. Ci rimangono il disco (EMI) e il libretto nella Collezione di teatro della Einaudi; sempre la Einaudi pubblicò la versione video di una messinscena del 1997 con la compagnia Media Aetas. Ma su Youtube (a questo link ) è visibile l’intero terzo atto della messinscena originale, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, con una straordinaria Isa Danieli e gli interpreti della Nuova Compagnia di Canto Popolare, tra cui spicca la Matrigna impersonata da un altrettanto straordinario Peppe Barra. Nella finale Scena delle Ingiurie si sente venir giù il teatro dalle risate. L’ondata di entusiasmo per uno spettacolo come quello, di pura musica, di puri significanti, ha qualcosa di miracoloso. Quanti del pubblico erano in grado di capire, lì per lì, parole in disuso nella stessa lingua napoletana, come «cacatrònola», «chiarchiolla», «cajotola»? Forse solo Eduardo De Filippo, che promosse l’opera al Festival. La musica vi sembra scaturire da origini remote, come remoti erano i riti portati nel rito supremo del teatro. L’esorcismo inscenato nel Secondo Coro delle Lavandaie condensava in sei minuti travolgenti il contenuto della Terra del rimorso di Ernesto De Martino, che De Simone nominava spesso come un suo punto di riferimento. Ed era inevitabile che lo fosse, visto che tutto lo spettacolo, accanto al suo lato grottesco, era pervaso da un senso tragico di perdita incombente su quel Sud dall’innesto pagano-cattolico, dove il pensiero magico – secondo la lettura demartiniana – era una forma di resistenza al pensiero razionalista, positivista, degli occupanti stranieri «di Francia e d’Aragona». Ed era inevitabile anche visto il legame, umano e professionale, di De Simone con Diego Carpitella, membro dell’équipe di De Martino in Salento nel 1959. Insieme raccolsero sul campo esempi di gestualità popolare (con un metodo, come dire, performativo? si veda qui). All’équipe di De Martino apparteneva anche l’antropologa Annabella Rossi, con la quale De Simone pubblicò una delle prime etnografie sul Carnevale: Carnevale si chiamava Vincenzo (De Luca, 1977): bellissime le pagine dedicate a Pulcinella come figura ermafrodita.
Allo sguardo di chi vi si affaccia, il lascito che De Simone ci ha consegnato assomiglia a un complesso reticolo culturale, fitto di rimandi interni, nei quali i suoi molteplici ambiti d’interesse s’intersecano continuamente, dando vita a un affascinante gioco di specchi. Valga un piccolo esempio. In Mistero napolitano (1977) vi è una scena nella quale Peppe Barra e Umberto D’Ambrosio, in arte Trottolino (a proposito di tradizioni scomparse, chi si ricorda più di lui? tra gli ultimi eredi del tipo dei café chantant…), eseguono la tarantella del Guarracino. Il brano è godibile di per sé, ma solo se si è letto De Martino si sa perché nella messinscena l’archetto di un violino venga fatto roteare come una spada, e la scena acquista un senso più profondo. E ancor più profondo il senso diventa se si è letto un saggio che De Simone pubblicò nel 1992: La tarantella napoletana ne le due anime del Guarracino (Edizioni Benincasa), dove viene esposta la tesi che tarantella non sia un generico ritmo di danza, come solitamente si crede, ma una precisa linea di basso su cui si eseguono variazioni. De Simone ne ripercorre dottamente le metamorfosi storiche, i modi di danzarla (Sfessania, Catubba e Lucia) e i significati simbolici riposti in quella del Guarracino, presa come caso esemplare: ecco che le parole e i gesti dei due grandi interpreti in Mistero napolitano rivelano ulteriori strati di senso. E nello stesso libro si ha contezza del precipitato delle tradizioni scritte e orali che hanno sospinto quella musica nel tempo e nello spazio fino a depositarla nella processione per i festeggiamenti della Madonna di Castello a Somma Vesuviana, dove De Simone la raccolse in una delle sue ricerche, per inserirla infine nello spettacolo, e dare una chiusura al cerchio. (Il saggio è, peraltro, un perfetto esempio dello stile desimoniano, completamente anti-accademico, e infatti l’Accademia lo ha ignorato. Pochissimi sono i rimandi a studi precedenti, perché le fonti o sono raccolte da De Simone stesso sul campo, o consistono in un libro in esemplare unico del XVII secolo che nessuno si prendeva più la briga di consultare; forse con una punta di aristocratico snobismo, lui nato in una famiglia poverissima. Ma non spetta a noi decretarne il valore scientifico, e in fondo non è neanche così importante).
Molte altre cose ci sarebbero da ricordare. Ci sarebbe da ricordare la sua produzione di compositore, con la colonna sonora del film Quanto è bello lu murire acciso (1975) o con l’oratorio Eleonora (1999) interpretato da Vanessa Redgrave. Ci sarebbe da ricordare lo scrittore di racconti e saggi, da quello sul Presepe popolare napoletano (Einaudi, 2004) a quello sul culto virgiliano (Il segno di Virgilio, Stampa et ars, 1982). Ci sarebbe da ricordare la sua attività di regista, a cui si deve la recente riscoperta di Raffaele Viviani, e di regista d’opera, coltissima e senza timore di operare delle riscritture sceniche: si veda l’esempio del Socrate immaginario di Paisiello. Ci sarebbe da ricordare il suo lavoro come direttore artistico al Teatro San Carlo e direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella. Ci sarebbe da ricordare infine il suo tratto umano, che dalle testimonianze risulta misterioso e contraddittorio come ogni essere umano è.
L’impressione generale è che per questo immenso artista si sia fatto troppo poco. Si potrebbero indicare varie falle da riparare, ma ci limitiamo a una sola. Oggi molti dei suoi libri sono fuori catalogo, introvabili persino nel mercato nero dell’Internet, compresi – incredibilmente – quelli della Einaudi. Le stesse biblioteche pubbliche ne sono sguarnite. È triste e assurdo che non si faccia niente. Ci auguriamo che la sua morte possa dare avvio a studi, celebrazioni e riscoperte. Perché è vero quel che disse l’artista che lo precedette nell’incarnare il mito e la maschera di Napoli, Antonio De Curtis: «questo è un bellissimo Paese, in cui però, per venire riconosciuti in qualcosa, bisogna morire».
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