Tempo di Sampha
L’intenso album d’esordio del giovane produttore londinese Sampha Sisay
La voce che affiora inizialmente non appartiene al protagonista: è quella – remota e disturbata – di Neil Armstrong, il primo uomo sceso sulla Luna. Dice: “Mi farò strada seguendo la luce del sole senza guardare direttamente il sole”. Dichiarazione per certi versi programmatica, che trova conferma nel cammino percorso fin qui dal ventisettenne produttore londinese (Sisay di cognome, figlio di genitori immigrati là dalla Sierra Leone): un paio di EP – Sundanza e Dual – dove esponeva timidamente se stesso e poi collaborazioni al fianco di pesi massimi quali Kanye West, Frank Ocean, Beyoncé, Solange, Drake e FKA Twigs. Raro fosse in primo piano, insomma.
Adesso Sampha deve uscire dalla penombra in cui si era riparato: scocca l’ora dell’album, uno fra i più attesi della stagione invernale. Aspettative ben riposte: se Process non è un capolavoro, poco ci manca. Sintonizzato su lunghezze d’onda che rimandano al pop crepuscolare di James Blake, alla malinconia digitale di Anohni e allo spleen con melanina di The Weeknd (quando è in vena), Sampha elabora una propria versione del soul e dell’R&B oggigiorno in voga dotata di gusto e personalità. Vi sono gemme di limpidezza cristallina fra le dieci esposte in vetrina: “Timmy’s Prayer”, ad esempio, garbata ed elegante, eppure carica di pathos, screziata quasi impercettibilmente da una melodia d’oboe diafana e struggente. Oppure “Reverse Faults”: astratto madrigale ambientato in un paesaggio sonoro che sa d’altri mondi. Più movimentati in senso ritmico sono “Blood On Me”, una sorta di trip hop attualizzato sul filo della contemporaneità, e “Kora Sings”, che denuncia attitudine africana già nel titolo.
È tuttavia negli episodi in cui si avvera quanto da lui affermato in un’intervista – «La musica è un modo per connettersi all’essenza della vita» – che si coglie l’intensità emotiva dell’ispirazione: in “(No One Knows Me) Like the Piano”, dedicata allo strumento sul quale si è cimentato fin dalla tenerissima età, e nel conclusivo “What Shouldn’t Be” s’intravedono le cicatrici dei lutti familiari e di altre traversie esistenziali con cui Sampha ha dovuto fare i conti.
Non esita dunque a mostrare la propria vulnerabilità, benché facendolo usi grazia e discrezione. Sampha è un artista coraggioso e pieno di talento: merita perciò ammirazione pressoché incondizionata.