Festival des Nomades 2 | L'esperienza-M'Hamid

Incontro con il direttore artistico del Festival des Nomades

Recensione
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M’Hamid El Ghizlane significa “piana delle gazzelle”. Toponimo ingannatore: di gazzelle non se ne vedono. E toponimo arabo: dunque non originale, in questa zona abitata da ben prima che si parlasse arabo, e ancora abitata da gente che parla lingue diverse. Ma il nome, unito al vasto letto completamente arido del fiume Draa che costeggia il paese, fa capire qualcosa dei problemi della gente di qui. Il Draa è il fiume più lungo del Marocco, ma rimane (soprattutto ai margini del Sahara) quasi sempre in secca. Quando si gonfia per le precipitazioni – raramente: la siccità qui dura dal 1996 – crea danni non da poco, in un’area in cui molte case sono costruite con la tecnica del pisé (ovvero, con mattoni di argilla e paglia tritata).

Un post condiviso da Jacopo Tomatis (@jacotomatis) in data: 23 Mar 2017 alle ore 08:08 PDT

Nell’economia di M’Hamid il turismo è oggi la voce principale: nel villaggio si aggirano indifferentemente carretti trainati da asini e 4x4 freschi di fabbrica, chioschi che vendono miscela per motorini in bottiglie di plastica e agenzie turistiche che promettono trekking o romantiche notti nel deserto, quad e dromedari – questi ultimi più a beneficio dei turisti che non dei locali, in verità.

L’attrazione principale per gli stranieri è naturalmente il deserto del Sahara, che comincia proprio dove finisce il paese. Per arrivare alle prime dune di sabbia basta fare una passeggiata, ma a un paio d’ore di fuoristrada c’è l’Erg Chegaga, la seconda duna più grande del Marocco. Con la complessa situazione politica dei paesi confinanti, in effetti, per chi vuole vivere l’esperienza-deserto il Marocco rimane oggi l’unica scelta veramente sicura. Anche per questo M’Hamid assiste a una rapida crescita del numero dei turisti e delle strutture ricettive.

Noureddine Bougrab – il direttore artistico del Festival des Nomades – è nato a M’Hamid, e insegna arabo nella scuola del paese. Racconta di aver trovato un vuoto nella vita culturale del posto: il Festival esiste grazie a lui, e ad alcuni giovani del villaggio, da 14 edizioni. Quest’anno ha portato in tre giorni di concerti Bombino e Terakaft (ovvero due dei più grandi nomi del “desert blues”, amati anche in Europa e negli Stati Uniti), Nass El Ghiwane (ovvero uno dei gruppi degli anni Settanta più importanti del Marocco), la diva hassani Saida Charaf (popolarissima in questa zona), oltre a tre gruppi polacchi e a varie proposte locali.

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Il Festival des Nomades è naturalmente parte dell’espansione turistica di M’Hamid. Eppure, la filosofia proposta da Noureddine è un po’ diversa da quella dei volantini degli uffici di promozione turistica e dal tariffario delle “esperienze nel deserto”, dalla scampagnata in dromedario al quad.

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«Purtroppo ci sono dei cliché – ci dice – e i media lo sanno benissimo. Ma è importante cercare di non essere nel cliché: tutti cercano le belle immagini, le cartoline. Ci hanno inquadrato in un certo modo, purtroppo. È per questo che siamo stati portati verso un certo tipo di turismo, di turismo di massa…». Un tipo di turismo che, per il fragile ecosistema di M’Hamid, rischia di essere potenzialmente letale. Il Festival vorrebbe proporre, secondo Noureddine, un turismo diverso, «autentico, un turismo culturale: gente che fa trekking, che cammina… I 4x4 vanno benissimo per quelli che hanno fretta, ma non sono la cosa migliore. Distruggono la flora. I quad sono infernali, con il loro inquinamento sonoro».

Le contraddizioni che disegnano quest’area, ancora una volta, emergono e si scontrano: nomadismo e sedentarietà, costumi antichi e ultramodernità, salvaguardia dell’ambiente e necessità di guadagnarsi da vivere… Il paradosso, nota con acutezza lo stesso Noureddine, è proprio quello di crescere troppo. E io stesso – che sono qui davanti a lui, con altri 4 giornalisti da mezzo mondo – sono parte del paradosso, nel momento in cui comunico al mondo che questo festival esiste.

Eppure, almeno per il momento, il Festival des Nomades resiste in questa meravigliosa zona grigia: per quanto non manchino le facce occidentali dei turisti, dei fricchettoni nostalgici e delle anziane coppie del Nord Europa, la gran parte del pubblico del festival è costituita da locali. Dai ragazzi, che affollano le prime file, alle donne con i bambini che occupano con un muro di abiti colorati l’area più lontana dal palco, l’atmosfera ricorda a tratti più quella di una festa popolare, con le bancarelle di dolciumi e di palloncini e i bambini che giocano, la parata delle grandi marionette e la corsa dei dromedari (che alla fine più che correre si fanno fotografare).

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Anche la fonica e la backline mostrano i segni della sabbia del deserto: il suono – ancora – è più vicino a quello di una sagra che non a un festival con artisti internazionali. Le chitarre elettriche spesso vanno direttamente nell’impianto (con gli esiti immaginabili in termini di qualità del suono), e molti degli amplificatori e degli strumenti che si vedono sul palco, in Italia, potrebbero giusto trovare posto in qualche mercatino dell’usato, a prendere polvere…

Eppure nessuno se ne lamenta. Tutto – più o meno – funziona, con lentezze e cambi palco talvolta esasperanti, palchi traballanti, larsen e luci esuberanti… Ma è questa la dimensione del Festival des Nomades: è il caso di dire, l’esperienza-festival è solo una piccola parte dell’esperienza-Mahmid. E non è per chi ha fretta.

Seconda puntata del reportage dal Festival des Nomades di M'Hamid El Ghizlane, Zagora, Marocco – Articolo in collaborazione con Ente Nazionale per il Turismo del Marocco / Royal Air Maroc.

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