La prima di Douglas

Il bilancio della direzione artistica del trombettista a Bergamo Jazz

Recensione
jazz
C’era voglia di primavera a Bergamo (premiata da un weekend di sole splendido) e c’era grande attesa per quest’edizione del Festival Jazz, la prima con la direzione artistica di Dave Douglas.

Il trombettista americano – lo anticipavamo già nella nostra analisi dell’edizione 2015, quando il suo nome non era ancora stato formalizzato – ha trovato nel festival un impianto già forte e collaudato, che ruota attorno alle tre serate al Teatro Donizetti e che ha saldato il patto di fiducia con il pubblico ormai da diversi anni.
Se quindi era in qualche modo intuibile che, a meno di catastrofici errori di valutazione, le cose sarebbero continuate nella direzione del lavoro già impostato (in particolare dalla felice direzione di Enrico Rava), c’era comunque grande curiosità per il rapporto che si sarebbe creato tra Douglas e la città.

Il trombettista l’ha presa davvero sul serio, portando con sé un entusiasmo e una vivace onnipresenza (le calorose e teneramente buffe presentazioni degli artisti, in cui ha coinvolto anche l’ufficio stampa del Festival, Roberto Valentino, ma anche qualche “comparsata” nei concerti) che ha certamente contribuito a conquistare la simpatia del pubblico bergamasco, a partire dai concerti di Franco D’Andrea e di Ryan Keberle al Teatro Sociale, che ha aperto il cartellone il giovedì sera.
Il progetto di Douglas andava ovviamente verificato sul campo e in questa edizione si sono incontrate, da un lato, la sua esigenza di prendere le misure del festival, dall’altro la verifica di una formula (ne accennavo poche righe qui sopra) che pur nella sua efficacia sembra iniziare a reclamare ulteriori sviluppi.

Partiamo dai concerti intanto. Quelli che ho trovato più interessanti (per ragioni volendo piuttosto diverse) sono stati quello degli scandinavi Atomic – nel consueto spazio pomeridiano all’Auditorium, seguito dal pubblico più desideroso di cose nuove – e quello conclusivo di Louis Moholo-Moholo.

Degli Atomic, che da un paio d’anni hanno sostituito il drumming furente di Paal Nilssen-Love con quello coloratissimo del giovane Hans Hulbaekmo, fa piacere riscontrare la voglia di evolvere, di rifinire ulteriormente i confini stilistici che stanno esplorando da oltre un quindicennio. Rimane certo il forte impianto post-freebop, su cui sia Frederik Ljungkvist alle ance che Magnus Broo alla tromba innestano pirotecnici interventi solistici, ma il contributo dell’intelligentissimo pianista Håvard Wiik, in particolare dal punto di vista compositivo, fornisce al quintetto soluzioni formali sempre più articolate, in cui convergono un inquieto camerismo e un controllato istinto di avventura.



Per quanto riguarda Moholo-Moholo invece, chi ne conosce vicende e temperamento sa bene cosa ci si poteva aspettare. Il concerto dei suoi 5 Blokes (che annoverano fra le loro fila musicisti fondamentali del jazz inglese di oggi, dal pianista Alexander Hawkins al contrabbasso esplosivo di John Edwards, passando per la coppia di sassofonisti formata da Jason Yarde e Shabaka Hutchings) è stato all’insegna del joyful noise (come l’ha giustamente definito lo stesso Hawkins su Facebook al termine della serata), un ribollire di classici temi dei Blue Notes che emergono dal caos come un canto/urlo dai contorni sfilacciati, ma dalla sincerità coinvolgente. Melodie come quelle di "B My Dear" o "You Ain’t Gonna Know Me…", l’imprevisto delle indicazioni improvvise del batterista ai compagni di avventura, un clima di comunità festosa e urgente hanno contribuito al successo di un concerto certo formalmente non impeccabile – e forse un po’ lungo, data l’ora tarda della domenica – ma che ha incarnato al meglio quel senso di umanità del fare musica insieme che lo stesso Douglas aveva evocato nell’incontro pomeridiano con D’Andrea e il direttore di "Musica Jazz", Luca Conti.



Tra le cose che non mi hanno convinto affatto ci sono certamente i concerti del quartetto di Joe Lovano e quello del trio di Kenny Barron. Non tanto per il “valore” dei due musicisti, che non è in discussione, quanto per il fatto che la loro proposta suona ormai eccessivamente standardizzata e prevedibile. Lo schema tema, soli, tema, con i lunghissimi (e spesso tediosi) assoli di contrabbasso e le ormai abusate gigionerie, nonché con fraseggi (specialmente nel caso del gruppo di Lovano) privi di respiro e più adatti a un club che non al palco di un teatro, mostra secondo me tutti i suoi limiti proprio in occasione di un Festival che, pur nel rispetto dei gusti di un grande pubblico non necessariamente avventuroso, si pone l’obiettivo di proporre il meglio in circolazione.

Anche il solo della pianista Geri Allen, dedicato alle musiche della tradizione black di Detroit, è suonato un po’ freddo e forse un po’ troppo introspettivo, sebbene la musicista abbia affrontato le pagine di Stevie Wonder, Marvin Gaye o di Michael Jackson (ma anche Strayhorn e Monk) con la consueta intelligenza e capacità di scavo. Non male, ma un po’ opaco e privo di guizzi.
Divertente il quartetto Wicked Knee guidato dal batterista Billy Martin, che alle scansioni ritmiche quasi bandistiche abbina tre ottoni come Steven Bernstein alla tromba, Bryan Drye al trombone e Michel Godard alla tuba. New Orleans e Ornette Coleman, Ellington e qualche sperimentazione timbrica gli ingredienti di un concerto non imperdibile, ma certamente piacevole e sincero.

Un discorso a parte meritano poi i due concerti che più hanno ottenuto i favori del pubblico di Bergamo, due proposte che a mio avviso sono risultate tutt’altro che indimenticabili, ma cui è giusto accostarsi con un’analisi che tenga conto di molti fattori. Mi riferisco ai quartetti della clarinettista Anat Cohen (a cui la platea del Donizetti ha riservato un entusiasmo a tratti incontenibile) e del batterista Mark Guiliana, l’unico – va detto – ad avere attratto massicciamente, principalmente in virtù della sua partecipazione all’ultimo disco di David Bowie, un pubblico di spettatori giovani che abitualmente non frequenta gli altri concerti.

È giusto accostarsi a questi due concerti cercando di resettare memoria, gusto e conoscenza, un po’ come un genitore che accompagna un bimbo o una bimba a uno spettacolo di magia di cui conosce ormai da anni i trucchi più abusati e prevedibili, ma che è giusto si immedesimi nello stupore e nell’emozione di chi vi assiste per la prima volta.
Sia la Cohen che Guiliana infatti, sebbene il loro linguaggio sia molto diverso, sono accomunati dal fatto di fare una musica costruita per arrivare direttamente al pubblico, specialmente al pubblico dei non appassionati, che molte volte non “gode” appieno di altre proposte proprio in quanto frenato dalla (spesso più percepita che reale, certo inconscia) convinzione di non essere in grado di “comprendere” quello che viene condiviso sul palco.

Nel caso di Cohen e Guiliana tutto è molto chiaro e diretto, sembra dire in ogni momento all’ascoltatore “ehi, lo senti che sto facendo questo per te?” e questo è un fattore che per chi si accosta alla musica senza le esigenze dell’appassionato vince praticamente su tutto.
Non c’è nulla di male, sia chiaro. E anzi sono convinto che – pur senza necessariamente cedere alle lusinghe delle captationes della benevolenza di chicchessia – a molti bravi jazzisti non farebbe male riconsiderare quanto “poco” arrivano alcune loro proposte a un pubblico potenzialmente coinvolgibile.

Il problema (se di “problema” si vuole parlare) è che ho sempre l’impressione che concerti come quelli di Anat Cohen o Guiliana – con tutto il loro portato di entusiasmo e di emozioni un tanto al chilo, di virtuosismo un po’ sbruffone e di più o meno spontanei ammiccamenti della cui efficacia non si può non dare conto – si muovano in prevalenza in un ambito di music for music’s sake, di autoreferenzialità, di “guarda come sono bravo e come posso giocare con tutti i mattoncini del lego sonoro per costruire qualsiasi cosa che ti possa piacere”.
È un ambito che conquista perché stupisce (ovviamente stupisce di più quelli che non conoscono “il trucco”, cioè la maggioranza) e rassicura al tempo stesso. Sceglie di non mettere mai in crisi chi ascolta, di non suscitare domande: ha una risposta per tutto, una madeleine per ogni emozione, per il ricordo della madre (la Cohen suona sia “Lilia” di Milton Nascimento che un suo brano dedicato alla mamma) e per la voglia di divertirsi (un choro ad esempio), per la popolarità di David Bowie (Guiliana suona “Where Are We Now” come bis, quasi a dire “sì, sono proprio io che ho suonato con Bowie”) e per chi cerca sonorità (sempre Guiliana) che richiamano le cose più popolari di Pat Metheny.



Ovviamente sia il quartetto della Cohen che quello di Guiliana fanno tutto questo con grande bravura, con raffinatezza esecutiva e formale, a volte non con troppo gusto (alcuni assoli del pur bravo batterista sono risultati piuttosto pacchiani), ma sempre con gli occhi negli occhi del pubblico, con il cuore nel suo cuore. E questo la platea lo sente, si scalda e ricambia. Chi invece nella musica cerca domande e non facili risposte, inevitabilmente rischia di annoiarsi a morte o di innervosirsi.

Ben riuscito è stato poi il consueto appuntamento negli spazi della Gamec, dove il duo di sassofoni tra Tino Tracanna (che bella maturità creativa sta attraversando il musicista!) e Massimiliano Milesi (un nome da tenere d’occhio) ha costruito un ottimo dialogo fatto di “contrappunti e polmoni” attorno a un’installazione dell’artista afroamericano Rashid Johnson, ma si spera davvero che il contributo di musicisti italiani al festival (quest’anno limitato a questi due e al gruppo di D’Andrea, oltre ai piacevoli dopofestival nella Domus) sia nelle prossime edizioni un po’ più consistente e magari non orientato ai soliti nomi.

Altra speranza – lo diciamo da un po’ di tempo e conforta sapere che anche Douglas, con cui ho avuto modo di parlare di questo, è su questa lunghezza d’onda – è che il Festival si muova anche in altri spazi e con altri pubblici, oltre a quelli ormai consolidati, magari anche “sacrificando” una delle tre serate al Donizetti (che per volume e tipologia di pubblico non consentono troppa avventura) per allacciare nuovi rapporti con un territorio che esprime certamente – e con grande vivacità, domenica in città, sia bassa che alta, quasi non ci si muoveva dalla gente – molte altre esigenze che non quelle del pur fedele e splendido pubblico degli abbonati.

Douglas è piaciuto a Bergamo e la città è piaciuta a lui. Il festival ha funzionato, pur senza momenti indimenticabili. Le misure sono state prese e ci sono tutti i presupposti perché la manifestazione cresca ancora, ma il direttore artistico – e tutti quelli che hanno lavorato in modo esemplare con lui anche quest’anno – lo potranno fare solo abbandonando qualche volta le soluzioni più facili e consolidate per verificare ancora una volta la forza di questa musica di reinventarsi a contatto con comunità diverse di persone. Buon lavoro.

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