Miles Mosley, le nuove vie del "jazz"

Il bassista di Kamasi Washington e del collettivo West Coast Get Down si racconta

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Negli scorsi mesi si è continuato a parlare, specialmente nei social network, del successo di Kamasi Washington e del suo The Epic, andando a riflettere sulla potenzialità (o meno, a seconda dell’opinione) che alcuni artisti in determinati momenti riescano a coinvolgere nuove comunità di ascoltatori – molte delle quali, va detto, specie le più giovani, sono sempre meno interessate a etichettare le musiche che amano sotto uno o l’altro “genere” – verso sonorità fortemente legate al jazz e alle musiche afroamericane.

Era quindi particolarmente attesa l’uscita del disco di Miles Mosley, presente al contrabbasso proprio nel vasto trittico di Washington, ma anche in alcuni brani di To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar. (Uscita tra l’altro quasi contemporanea al nuovo disco di Thundercat, altro bassista legato sia a Washington che a Lamar…)

Il lavoro di Mosley si chiama Uprising, è stato pubblicato dalla Alpha Pup Records ed è stato anticipato dal singolo “Abraham”, che già pone le coordinate dei mondi del bassista californiano. Una sana dose di aromi funk, soul e jazz si innestano su un corpo caratterizzato dall’inconfondibile suono dello strumento (spesso rinforzato e distorto) e dall’attenzione alla forma canzone.

Un disco energetico, che non a caso esce dalle stesse sedute di registrazione che hanno portato a The Epic. Di quelle sedute, del collettivo West Coast Get Down di cui fa parte, della sua vita interamente dedicata alla musica (Mosley vanta un curriculum di grande pregio come collaboratore di artisti quali Chris Cornell, Christina Aguilera, Lauryn Hill, Jeff Beck o Rihanna) ci siamo fatti raccontare dallo stesso Mosley in questa intervista. In attesa di poterlo apprezzare dal vivo nel breve tour italiano di presentazione di Uprising, che lo porterà lunedì 10 aprile al Serraglio di Milano, martedì 11 aprile al Locomotiv Club di Bologna e mercoledì 12 aprile al Monk di Roma (i biglietti sono già disponibili sul circuito Ticketone).

Come è nato il tuo nuovo disco, Uprising?

«L’avventura di Uprising è nata nello studio di Tony Austin, che nel West Coast Get Down è batterista e produttore. La canzoni sono state scritte e elaborate dal vivo durante una residenza a Hollywood e avevamo un’idea abbastanza precisa del tipo di arrangiamenti e energia che volevamo catturare. Era importante per noi fare un disco intimo ma allo stesso tempo intenso, con le voci in primo piano in modo che le parole si potessero sentire bene».

…mi sembra aveste le idee ben chiare…

«Sì, ma tutto questo ha richiesto un grande sforzo in pre-produzione, anche perché a metà del lavoro sia Kamasi Washington che qualche altro componente del West Coast Get Down ha deciso di mettersi a lavorare al proprio disco. Ci è sembrata una bella opportunità condividere risorse e denaro, così abbiamo prenotato un bel mese tutti insieme in studio, tale da permetterci di lavorare sui dischi di ciascuno allo stesso tempo. Il risultato è stato più di 170 canzoni registrate in 30 giorni, una seduta davvero storica per tutti noi, che mi ha permesso di usare quel materiale e finire il disco con Tony e la nostra manager Barbara Sealy come coproduttori. Ci abbiamo lavorato sodo e il disco possiede tutta quella magia che ciascun lavoro uscito da quelle sedute porta con sé».

Accennavi prima ai testi…

«I testi sono importantissimi per me. Mi piacciono molto le parole e sono affascinato dal potere che possono esercitare sulle persone. Credo che tutta la nostra civiltà sia costruita sul potere delle parole. Le emozioni umane sono spesso caotiche e complesse e la musica ha la capacità di rivolgersi a questi temi del cuore e della mente in un modo che aiuta le persone a affrontare le situazioni. Ho scritto un disco sulla vittoria e il coraggio, su come puoi rialzarti e continuare a andare avanti nella vita, nonostante i colpi che ricevi».

Torniamo al  West Coast Get Down, al collettivo di cui fai parte: come funziona la collaborazione tra di voi?

«Con il West Coast Get Down lavoriamo insieme molto strettamente in ogni cosa facciamo. Collaboriamo ai dischi di ciascuno e suoniamo dal vivo insieme, ci conosciamo da molto tempo e questo consente un’intesa speciale».

Quale pensi sia la forza che vi tiene così uniti?

«La nostra maggiore forza sta nella diversità tra noi e nel fatto che possiamo confrontarci con competenza con linguaggi musicali molto vari. Questo ci consente anche di cambiare atmosfera con grande facilità, non ci limitiamo a suonare una canzone in un modo oppure in un altro, ma possiamo passare dalle sonorità jazz più autentiche al funk anni Sessanta, dal grunge all’hip-hop. È raro trovare una band con tante possiblità al suo arco».

Come accennavi prima, nello stesso periodo in cui registravate il tuo disco, registravate anche The Epic di Kamasi Washington. Vi aspettavate un simile successo del disco?

«Abbiamo sempre saputo che la musica che stavamo facendo era speciale e potente, capivamo che chi l’avrebbe ascoltata l’avrebbe amata anche se non gli fosse piaciuto il “jazz”. Così, quando The Epic è uscito ed è diventato un successo non ci siamo molto sorpresi, anzi ci sentivamo legittimati a pensare che non eravamo dei pazzi [ride]. È una strana sensazione sapere che qualcosa è vero, che è potente, ma non poterne avere la riprova a livello mondiale, credo alla fine la fede sia questo… credere ciecamente in qualcosa che il cuore ti dice essere vero. Così è stato davvero pazzesco portare questa musica al mondo e vedere la reazione di tanta gente quando suoniamo in un modo che non ha mai visto prima».

Il suono del tuo basso è spesso distorto e filtrato con pedali: come lavori alle sonorità dello strumento?

«Sono molto fortunato di avere persone molto tecniche attorno a me. La persona che ha ideato lo strumento, Jason Burns di Blast Cult, è così brillante da avere costruito un basso che ha la forza di sostenere i suoni che creo. E poi c’è Tony Austin, che è così fantastico come batterista quanto lo è come tecnico. Presto mi sono reso conto che non ci sono così tante categorie di effetti da cui scegliere, da otto a dodici a seconda di a chi lo chiedi. Così, se prendi ciascuno di essi hai una tavolozza con cui lavorare, nello stesso modo in cui un artista pensa a sistemi di colori come CMYK o RGB. Passo molto tempo in studio a provare differenti combinazioni di pedali e suoni, a capire come ottenere nuove sonorità dallo strumento, che mi consentano di esprimere quello che sento. Sono suoni che possono essere piacevoli o aggressivi, ma che non devono mai perdere la musicalità di fondo».

Quali sono le tue principali influenze come bassista e musicista in genere?

«Come bassista devo dire Ray Brown, Tony Levin, Oscar Pettiford, Charles Mingus e Bootsy Collins, mentre come musicista in genere citerei Peter Gabriel, Otis Redding, The Temptations, Joni Mitchell, Jay Z, Timbaland, Bob Marley, Leonard Cohen, Tom Waits, Charlie Christian, Clark Terry, Stravinsky, Mendelssohn, ma se vuoi posso continuare a lungo, eh…».

Cosa stai ascoltando in questo periodo?

«Alcune novità di NAO, Frank Ocean, Toulouse, Moses Sumney. Ma non mi dimentico mai di riascoltare qualcosa della Motown, di artisti brasiliani come Jorge Aragão e Roberto Ribiero o di cantanti francesi come Juliette Gréco».  

Hai un sogno nel cassetto?

«Ho sempre e solo fatto musica nella mia vita, questo era il mio sogno sin da ragazzino e sono stato fortunato di averne potuto trarre il lavoro della mia vita. A questo punto quello che posso sognare è di lavorare il più possibile per continuare a presentare la mia musica a quante più persone possibile in tutto il mondo, attraverso i dischi, i concerti, le colonne sonore. Credo che si possa dire che vivo il mio sogno ogni giorno…».

Cosa ti aspetta nel prossimo periodo?

«È giunto il momento di tornare in pista dal vivo per il tour del disco [tra cui le tre date italiane di cui accennavamo prima]. Il palco è un posto in cui mi trovo molto a mio agio, il mio ambiente naturale. Stiamo pianificando un tour lungo tutto l’anno per suonare i pezzi del disco e anche del materiale nuovo. Abbiamo così tanta musica pronta per il nostro pubblico, la cosa difficile è presentarla un po’ alla volta. Avremmo potuto produrre un cofanetto, se solo avessimo voluto, ma ci è sembrato più interessante che a ogni concerto il pubblico si aspetti qualcosa di nuovo che non ha mai sentito prima».

La foto di apertura è di Todd Mazer.

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