(ANAGOOR | FAUST di Charles Gounod | Ph Giulio Favotto)
L’Anagoor del racconto di Dino Buzzati è una città grande, ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata. Anagoor fa da sé e non obbedisce. Non obbedisce a mode e modi consueti nel teatro italiano il collettivo teatrale Anagoor, nato e cresciuto nella provincia profonda del nordest italiano per iniziativa di Simone Derai e Paola Dallan, cui in seguito si aggiungono Marco Menegoni, Moreno Callegari, Mauro Martinuz, Giulio Favotto e altri. Da diciassette anni Anagoor propone il suo teatro dalla forte impronta letteraria e impianto drammaturgico originale, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti (il più recente quello dell’Associazione Nazionale dei Critici Teatrali per l'innovativa ricerca teatrale) ed è stato recentemente anche oggetto dell’interessante saggio di Silvia De Min “Decapitare la Gorgone”. Se la musica è presente nel percorso di Anagoor, le esperienze nel teatro musicale sono abbastanza rare e confinate nel barocco: del 2012 è “Et manchi pietà”, lavoro video scandito in tredici stazioni musicali e due meditazioni lungo le linee biografiche della pittrice Artemisia Gentileschi, e del 2013 “Il palazzo di Atlante” di Luigi Rossi allestito nel ricostruito foyer del ricostruendo Teatro Galli di Rimini per la Sagra Musicale Malatestiana. A dicembre li attende il debutto in un’opera vera, il “Faust” di Charles Gounod, in programma al Teatro Comunale “Luciano Pavarotti” di Modena il 1 e 3 (e a Reggio Emilia il 7 e 10, e Piacenza il 15 e 17). A diversi mesi dal debutto, il gruppo è già al lavoro sui video, elemento chiave del linguaggio teatrale del gruppo, che saranno parte integrante dello spettacolo. Abbiamo incontrato Simone Derai, anima storica di Anagoor e regista di questo “Faust”, per parlare di come è nato e si sta sviluppando questo nuovo progetto per la scena.
Come è nata la proposta?
«La proposta è arrivata da Gabriele Vacis, direttore artistico dimissionario dei Teatri di Reggio Emilia e dal Maestro Aldo Sisillo, direttore artistico del Teatro Comunale di Modena. L’alveo del Teatro Settimo di Vacis è stata una delle radici di nascita e di crescita di Anagoor e in passato abbiamo più volte collaborato con Laura Curino una delle anime del progetto piemontese. Con Vacis ci eravamo incontrati l’anno precedente. Aveva espresso interesse per “Il Palazzo di Atlante” di Luigi Rossi, realizzato nel 2013 insieme all’ensemble Sezione Aurea diretto da Luca Giardini per la Sagra Malatestiana di Rimini. Si era allora parlato di procedere lungo la via del teatro musicale barocco, un “Orfeo” magari per continuare sulla scia di Rossi. Invece a settembre dello scorso anno, mentre eravamo al lavoro con Aleksandr Sokurov all’Olimpico di Vicenza, è arrivata la telefonata con la proposta di un “Faust”. Un passo importante, sul quale abbiamo meditato per un mese durante un viaggio in India, e al ritorno abbiamo accettato.»
Anagoor & Sezione Aurea - Il Palazzo di Atlante (Ruggiero e Bradamante) Sagra Musicale Malatestiana (agosto 2013)
Questa è la prima vera opera per Simone Derai o si deve piuttosto dire di Anagoor?
«Di’ pure di Anagoor. È vero che io mi assumo la responsabilità della regia, ma gli onori e gli oneri sono condivisi con un team di persone che abita il progetto collettivo di Anagoor. Scene e costumi saranno firmati da me e Silvia Bragagnolo, i video saranno realizzati da Giulio Favotto e me. Marco Menegoni sarà l’uomo che coordina tutte le parti, e Monica Tonietto sarà al nostro fianco sullo spartito. Insomma la squadra è quella abituale delle mie produzioni per il teatro.»
Da dove siete partiti per questo nuovo progetto?
«Da Goethe. Abbiamo portato il suo “Faust” in India con noi. L’Europa e l’Occidente si osservano meglio da lontano.»
Goethe è una buona partenza per affrontare Gounod?
«È una partenza possibile, quella che in relazione a Gounod tutti sconsigliano. Ma evidentemente preferiamo metterci nei guai. Su alcune questioni artistiche spalancate dal “Faust” di Gounod pesa il giudizio di un primo sguardo critico, su cui poi, a catena, se ne sono allineati molti altri, rendendo difficile una nuova lettura non viziata dal pregiudizio. Ci sono artisti che soffrono particolarmente questo peso. Ci è capitato di osservarlo anche per Giorgione, per Virgilio, o per Artemisia Gentileschi la cui vita e il cui gesto artistico abbiamo fatto attraversare in “Et manchi pietà” da un gioco musicale e visivo (il concerto dell’ensemble Accademia d’Arcadia su musiche di Monteverdi, Strozzi, Kapsberger, Rossi, Fontana e altri si intrecciava a 13 quadri video). Nel caso di Artemisia, il fatto biografico, le vicende legate allo stupro e al processo, il legame con il padre, pesa radicalmente e pesa sempre in accezione negativa o limitativa, ma se si liberano il gesto artistico e la produzione da questo vizio di sguardo o se li si osservano “in virtù” e non “per difetto” del portato biografico, allora le cose cambiano di colpo. Nel caso del “Faust”, Gounod è biasimato di non aver reso giustizia al capolavoro del poeta tedesco, quando non proprio di averlo completamente travisato. Si invita, nell’affrontare Gounod, a dimenticare il confronto con il “Faust” di Goethe. Eppure io sono fermamente convinto che dimenticare Goethe sia un passo sbagliato nell’affrontare l’opera di Gounod. Anzi che Goethe dovrebbe essere il punto di partenza, la molla da far scattare per una rilettura, che, e questa è chiaramente la mia personale opinione, non scateni nel confronto l’evidenza del limite o del difetto, ma il manifestarsi del pregio, quello di una complessità di intenti, magari, proprio in virtù di certi fallimenti. Si tratta di affondare nella materia per comprendere quali sono state le spinte che hanno portato a precise scelte drammaturgiche e musicali e rintracciare un sistema di riferimenti consapevoli.»
Et manchi pietà Accademia d’Arcadia e Silvia Frigato. Video di Anagoor (Festival MiTo, settembre 2012) “Toccata arpeggiata” di Girolamo Kapsberger e “Sì dolce è’l tormento” di Claudio Monteverdi
Come rispondere a chi sostiene che Gounod abbia frainteso se non addirittura tradito Goethe …
«Per Gounod la scelta del “Faust” è l’attestazione di una passione che lo aveva accompagnato per decenni, come lui stesso ha scritto nella sua biografia. “Lo serbo nel grembo da vent’anni” disse all’impresario che glielo commissionava. Da giovane aveva letto il poema di Goethe nella traduzione di Gérard de Nerval del 1827. Fu dunque l’“Urfaust” a toccarlo profondamente: sappiamo che non se ne staccava mai; che lo portò con sé a Roma in seguito al Grand-Prix; che lo aveva accanto quando in piena crisi spirituale scopriva i madrigali e la musica polifonica di Palestrina e poi di Bach; che scese a Capri con il Faust, dove una notte calata sul mare e le scogliere gli folgorò l’animo suggerendogli la composizione de “La Nuit de Walpurgis”. È vero che si dice che Gounod abbia frainteso Goethe – e questo proprio per aver spalancato le porte dell’opera alla propria crisi mistico-religiosa – eppure credo che un tale dissidio interiore, alimentato da un tale legame viscerale con un’opera altrui, non possa essere dimenticato da chiunque si accinga ad affrontare questo “Faust”.»
Non trovi che l’opera di Gounod sia il risultato di un cedimento alle convenzioni in nome di quelle che oggi si chiamerebbero le “ragioni del mercato”?
«È un fatto che l’opera venne costantemente modificata in funzione della tournée francese e poi all’estero, musicando i recitativi, tagliando e spostando scene, aggiungendo numeri e pezzi in funzione delle varie produzioni o di un certo interprete... e poi in direzione del grand-opéra con l’aggiunta dei sette famigerati balletti. Tutto questo in Gounod è la riprova di una certa debolezza. Ma è anche quello che rende questo “Faust” un oggetto difficilmente classificabile, a maggior ragione oggi che ancora non è possibile redigere un’edizione critica. Ma al di là della confusione produttiva e di una generosità creativa altalenante, Gounod e Barbier dichiarano con evidenza il tentativo (innovativo per quella fase dell’opera francese) di abbandonare le monumentalità precedenti in direzione di un nuovo più intimo lirismo, una ricerca che faceva addirittura recepire Gounod come ardito, troppo audace, difficile e che gli meritava comunque la fama di compositore colto. Oggi gli aggettivi che talvolta lo accompagnano sono corrivo o zuccheroso. Allora è piuttosto una questione di punto di vista o di sguardo.»
Se lo si confronta con la visionarietà del “Faust” di Berlioz, non ti sembra che quello di Gounod riduca tutto alla piccola cronaca?
«Sono d’accordo. L’opera-oratorio di Berlioz si mantiene nella libertà garantita dal genere e, nella sua incompiutezza, che è la sua forza a posteriori - un incompiuto proprio un “Faust”! -, raggiunge un equilibrio che le permette di sorvolare sul mito faustiano e si consegna come un’opera che lascia libera la fantasia dell’ascoltatore giocando con le sue memorie letterarie. È interessante notare che i compositori tedeschi, con pochissime eccezioni (Schumann e più tardi Mahler) rinunciarono di fatto a farne materia per il teatro musicale e non solo perché Goethe rifiutava di concedere il suo benestare. Di fatto il poema del Faust diventava intoccabile non solo in quanto monumento letterario nazionale, ma perché nel frattempo l’uscita della seconda parte del poema ne aveva rivelato l’irrappresentabilità. Gounod ci arriva sull’onda dell’entusiasmo personale, e pare non porsi alcun problema di carattere filosofico, ma solo apparentemente. Alla fine Gounod è davvero l’unico compositore ad aver avuto il coraggio di affondare fino al collo e anche oltre nella materia teatrale, materia che ha leggi impietose. E credo che sia importante tener conto anche del fatto che il “Faust” di Gounod arriva in una fase in cui, fra l’altro, i “Faust” non mancano nei teatri di prosa francesi. Ci provano davvero in tanti, soprattutto cercando di restituire il viaggio allegorico del secondo “Faust”, con risultati di dubbio gusto tra voli in oriente, fantasmagorie e discese negli inferi (è su questa scia che si inserisce in Italia anche il “Mefistofele” di Boito): di fronte a questi poveri tentativi le scelte di Gounod ci appaiono dettate da una severa volontà di riduzione e concentrazione attorno al nucleo dell’ “Urfaust” e della vicenda di Margherita. Mahler sceglierà una strada diversa, aprendosi esclusivamente all’ultima scena del “Faust”, e inventando un rapporto con una prima parte della Sinfonia n. 8, che è di ben altro tipo: nessuna narrazione ma un’invocazione allo Spirito. Si tratta di processi di maturazione molto distanti, molto diversi e che pure sono figli l’uno dell’altro.»
E dunque come sarà il “Faust” sulla scena di Anagoor?
«Anagoor cercherà di tenere a fuoco tutti questi elementi. Aver accettato l’invito a curarne la regia significa anche abbracciarne i limiti costituitivi, ma soprattutto significa illuminare le vene che nutrono il genio e che dirigono la composizione. L’adesione personale di Gounod all’“Urfaust” e il libretto di Jules Barbier ripreso dal testo teatrale di Michel Carré, l’attenzione rivolta sulla “piccola cronaca”, la costruzione di un piccolo teatrino popolare che consapevolmente si staglia contro il grande teatro dello spirito di Goethe sono la chiave per aprire la serratura. La scelta della “piccola cronaca” è una rinuncia, come chiudere un cerchio attorno a un fuoco preciso che Gounod e Barbier avrebbero potuto controllare meglio. Un fuoco che si riduce così tanto da mettere più in luce Margherita che Faust stesso. È questo un gesto consapevole, non un fraintendimento inconsapevole, non è un errore, ma una scelta drammaturgica molto chiara. È altrettanto vero che a volte Gounod sembra più interessato a lavorare su quadri d’atmosfera, sull’affresco che sul dettaglio. Tuttavia il suo sforzo è sempre interessante e va seguito con grande rispetto e anzi pare in alcuni casi anticipatore di approdi di là da venire. Nella nostra versione per la scena coesisteranno, giustapposti, il teatro dello spirito di Goethe e il piccolo teatrino composto da Gounod, Barbier e Carré.»
Un modo per prendere le distanze dalla materia drammatica?
«Forse vale la pena di spendere qualche parola su come si comporta Anagoor rispetto alle opere del passato. Si misurano spesso distanze incommensurabili tra la nostra posizione di osservatori e quella di opere create in un determinato tempo passato. È ingiusto sovrapporre le nostre letture su di esse, forzandole in qualche modo, cercando di trovare (o forzandosi di trovare) quanto di contemporaneo c’è nel passato. Più interessante osservarli come oggetti lontani. Nel misurare la distanza che ci separa, illuminiamo dal nostro punto di vista aspetti del passato (che appartengono al passato) prima non visibili. Ogni epoca in questo senso ha una posizione privilegiata nei confronti del passato. Questo approccio ha guidato il nostro sguardo su Virgilio in “Virgilio brucia”, su Socrate in “Socrate il sopravvissuto”, prima ancora su Giorgione e Mariano Fortuny. Questa distanza, e l’impossibilità di fermare in un’icona stabile l’opera o il pensiero di un autore del passato, consente di accoglierne caratteri di ambiguità.»
Anagoor – Socrate il sopravvissuto. Come le foglie (2016)
Cosa trovi interessante nell’ambiguità di Gounod?
« Gounod è accusato di essere facile, troppo superficiale, per i nostri gusti, ma a questo biasimo segue paradossalmente quello di aver innestato nella materia goethiana un tormento religioso eccessivo. Ed effettivamente coesistono nell’opera, come degli iceberg che cozzano l’uno contro l’altro, punte estremamente mondane che contrastano con improvvise impennate religiose. La compresenza dei temi religiosi e mondani è un tentativo, forse irrisolto o fallimentare, di raccogliere nel piccolo teatrino il mondo intero catturandolo con un solo colpo d’occhio. E in fondo questa dicotomia è uno dei caratteri più profondi di quel secolo. Ma spie del gioco consapevole sulla materia operato da Gounod si trovano disseminate in tutta l’opera. Ad esempio nel primo atto, prima scena: Faust è pronto a darsi la morte all’alba della notte tremenda, ma ode i canti della comunità risuonare in strada; Gounod avrebbe potuto scegliere di attingere al canto pasquale di Goethe, indulgendo nella propria vena mistica, invece scarta il canto religioso in favore di canti di lavoro e primaverili. Il canto pasquale tornerà invece a conclusione del dramma, recuperato per accompagnare Margherita al patibolo: il canto della processione che la accompagna al rogo diventa canto di salvezza. Ma anche nel secondo atto si manifesta l’evidenza di questo atteggiamento: il grande affresco della comunità con le sue parti giustapposte per frammenti culmina nel walzer finale. Il tanto vituperato walzer, biasimato d’essere una facile concessione alla moda del tempo, pare sgorgare, come vino miracoloso in una festa di Cana diabolica, dalla botte aperta da Mefistofele con l’inno al vitello d’oro. La comunità che lo aveva scacciato per mezzo dell’esorcismo delle croci, chiude l’atto ballando vorticosamente il rondò del diavolo».
Pensate a una trasposizione temporale della vicenda del Faust?
«Non desideriamo sovraimporre immaginari altri sull’opera, e quindi sarà mantenuta fedeltà temporale e geografica. La leggenda di Faust verrà ridisegnata là dove si origina e non sarà letta in chiave ottocentesca, né alterata da altre trasposizioni temporali. La scena sarà la halle di una piccola comunità germanica di inizio Cinquecento. La “fabula” verrà seguita con linearità.»
Lo dicevi anche tu che Faust è un’opera che ha subito continue modifiche. Quale versione avete scelto?
«Sarà la versione senza i sette balletti (e quindi con la Notte di Valpurga contratta) come nella versione originale. Con il direttore Jean-Luc Tingaud c’è la massima intesa anche sull’ordine delle scene, la cui successione è da sempre oggetto di discussione. Per esempio nel quarto atto abbiamo scelto di posporre la scena della chiesa a quella della morte di Valentin, come in origine. Lo stesso Gounod non sapeva decidersi su quale ordine dare a queste due scene. La scena della chiesa dopo la morte di Valentin segue più fedelmente l’andamento goethiano e drammaturgicamente funziona meglio: il ritorno dei reduci genera un salto temporale più interessante e più in linea con il manifestarsi della gravidanza di Margherita».
I video sono un elemento fondante del linguaggio teatrale di Anagoor: li userete anche per questo vostro “Faust”?
«Per Anagoor i video non sono un’estensione della scenografia ma una manifestazione con cui fare i conti. Nei nostri lavori i video sono spesso delle steli, dei corpi, con un volume. Ma è un volume negativo, come fossero un buco, uno spazio vuoto, una mancanza, un varco sul cui limite si affaccia una presenza/assenza. Ne Il Palazzo di Atlante di Luigi Rossi come in altri lavori teatrali (Lingua Imperii, Tempesta, Fortuny) l’immagine video è l’apparire di qualcosa o qualcuno, un volto che poggia il proprio sguardo sulla scena. Oppure è una finestra verso un altrove, una dimensione dell’aldilà. In Faust questa natura è rispettata, infatti troveranno spazio sul limitare della scena, nello iato fra un atto e l’altro, separando e insieme aprendo verso un altro mondo quello caleidoscopico della grande domanda di senso faustiana. Saranno proiettati in silenzio (tranne durante l’ouverture) per donare allo spettatore un tempo e uno stare puramente meditativi: proviamo ad invitare ad un altro tipo di ascolto anche nei confronti di un’opera che nasce immersa nel suo tempo e che cela al suo interno tesori.»
Anagoor & Sezione Aurea - Il Palazzo di Atlante (Ruggiero e Bradamante) Sagra Musicale Malatestiana (Rimini, agosto 2013)
Sganciati dalla narrazione, che tipo di interazione avranno i video con lo sviluppo della vicenda?
«Non posso dire troppo, soprattutto non posso anticipare un risultato che potrebbe mutare, in un momento in cui la raccolta di immagini non è conclusa e considerato che il montaggio del materiale video può seguire strade imprevedibili. Io, Giulio Favotto e Marco Menegoni stiamo cercando di inseguire il filo della corsa di Faust, il suo rincorrere la conoscenza, le eterne domande sulla vita, sul sacro, sul domestico e sul selvatico, sulla generazione, sull’eternità: un caleidoscopio dell’impossibile, dell’indicibile. I video solleciteranno una lettura meta-teatrale dell’opera, perché aprendo verso le immagini del mondo contemporaneo non potranno che esporre la natura drammatica, nel senso teatrale del termine, della messa in scena.»
Come definiresti l’approccio di Anagoor rispetto alla messa in scena?
«Nella nostra immodestia, crediamo di prendere l’opera e di osservarla come un oggetto, senza toccarla. Invece lo si tocca eccome! Infatti ogni sguardo illumina selezionando, e anche quando riduce il proprio fuoco non fa che evidenziare i temi che gli sono cari. “Il Palazzo di Atlante” è un esempio di analisi dell’opera dall’esterno: si è cercato di coglierne il cuore principale e una volta individuato (il dolore di Atlante e la sua hybris: trattenere il figlio dalla morte/dalla vita) ci si è immersi come palombari, scendendo all’interno del dramma senza indulgere in un gioco scenico - che è quanto, forse, ci si aspetterebbe dal teatro barocco ma che non necessariamente cattura e restituisce lo spirito dell’opera. “Il Palazzo di Atlante” doveva essere osservato nel suo ritorno in scena per la prima volta dopo secoli. Nel caso di Gounod, il “Faust”, ben più celebre e frequentato, dev’essere osservato anche alla luce della storia della critica e del pregiudizio che grava sull’opera, in qualche modo liberandolo. In questo senso per noi la regia è osservazione di un oggetto, è renderlo evidente, farlo brillare.»
È l’ekphrasis di cui parla Silvia De Min nel suo saggio dedicato al vostro teatro?
«Sì è così. E questo metodo ci consente anche di abbracciare i limiti dell’opera, le sue ambiguità, di problematizzarli.»
Et manchi pietà Accademia d’Arcadia e Silvia Frigato. Video di Anagoor (Festival MiTo, settembre 2012) “Folias echa para mi Senyora Donya Tarolilla de Carallenos” di Andrea Falconieri
È stato detto che Anagoor fa un teatro politico: è una dimensione imprescindibile del fare teatro oggi?
«Rimane imprescindibile. La prima scena del “Faust” di Gounod si apre sullo studiolo del dottore. Al culmine della notte tremenda, Faust esplode in un “Rien!” iniziale che pesa come un macigno. Si è detto che Barbier e Gounod non abbiano inseguito le dense riflessioni delle prime pagine del Faust di Goethe. Ma quel “Nihil” iniziale è la negativa spina dorsale dell’opera - e in senso lato di tutto il pensiero occidentale. È il fondamento del nostro dolore. La base della nostra follia. Faust è tutto in quel “Rien!”, è la molla della trappola se ci interessa osservare la caduta, oppure è la spinta che ne alimenta la ricerca infinita, la tensione verso il rimedio, che caratterizza tutta la vita del Dottore e che ancora, dopo aver bestemmiato fede e scienza, lo spinge a cercare risposte. Il Faust di Gounod è talmente coagulato attorno a quel “Rien!” che questi poi può quasi svanire, dissolversi nel progredire dell’opera. Ciò che osserviamo in scena sono gli effetti della corsa di Faust: la corsa del resto sta tutta nella memoria letteraria dello spettatore (che all’epoca conosceva bene il poema di Goethe). Faust in fondo è nello spirito del secolo e può quindi smaterializzarsi all’interno dell’opera; Faust è l’uomo dell’Ottocento che potrà osservare in scena il proprio specchio, la propria ombra, il rovescio della medaglia della corsa verso l’assoluto, le conseguenze delle proprie azioni. In questi termini il “Faust” di Gounod può apparire sinistramente profetico. La salvezza di Faust, che è nell’opera di Goethe, è rimandata, e pare non interessare a Gounod. Il tempo stretto della drammaturgia impone di cercare un nuovo soggetto la cui caduta può essere riscattata dalla coscienza: è sufficiente che Margherita si sottragga alla fuga per mostrare la forza della salvezza personale. L’assoluzione di Marguerite dipende da una lucida assunzione di responsabilità e lampeggia fulminea come le apoteosi delle tragedie greche. Nel nostro spettacolo non ci saranno schiere angeliche a salvare Margherita: la salvezza sgorga tutta da dentro. Il politico trova dimensione nella riduzione alla scala delle scelte personali e nella cura della coscienza. Esisterà una muta tensione tra questo piano della vicenda e i frammenti di mondo che i video sgraneranno come un rosario.»
A differenza del teatro anche musicale che avete affrontato finora, “Faust” è un’opera nota e quindi inevitabilmente evoca una tradizione: lo vivete come vincolo?
«No. Rimaniamo fedeli al nostro metodo. Non c’è materia di fronte alla quale smettere di essere curiosi e assetati. “Faust” è un’occasione di conoscenza personale. Non solo in senso metafisico, ma anche più prosaicamente per confrontarci con una tradizione nobile come quella dell’opera lirica. Anche l’immersione nel teatro musicale barocco durata per qualche anno ha segnato una possibilità di crescita spirituale indimenticabile. Certamente ci accostavamo al barocco in modo diverso. Maggiori le affinità, vuoi per una certa dimensione melanconica, vuoi per le pregresse esperienze musicali della nostra ricerca teatrale. Una delle matrici del nostro laboratorio pedagogico e poi anche di creazione è il canto: per una compagine attoriale lo studio e il ricorso alla polifonia fra Medioevo e Rinascimento, per l’allenamento delle tecniche di ascolto, offre possibilità sicuramente più agili, che la lirica non consente.»
Ci sarà altra opera nel futuro di Anagoor? Un titolo che ti sta a cuore?
«Il desiderio di fare altra opera c’è. L’“Orfeo” di Monteverdi o magari quello di Luigi Rossi.»
“Il Palazzo di Atlante” è un bell’esempio di teatro di regia non banalmente illustrativo…
«Per “Il Palazzo di Atlante” non scegliemmo la via descrittiva, ma nemmeno quell’invenzione che si risolve col cancellare l’opera stessa per mezzo di cappelli puramente scenografici. È un metodo d’intervento, il nostro, che minimizza l’intervento stesso, ma che tenta di scendere negli abissi dell’opera, fino al suo cuore pulsante e, trovatolo, di stringerlo tra le mani. Se poi questo procedere risulta più profondo e radicale di operazioni più gagliarde, questo lo lasciamo decidere agli spettatori.»
Da regista hai qualche figura di riferimento nel teatro o semplicemente che trovi stimolante?
« L’andare a vedere le regie altrui provoca inevitabilmente la meraviglia, lo sprone, persino l’invidia. Tutti offrono un dono generatore di ispirazione. Sono uno spettatore entusiasta. E poi anche il rifiuto che un gesto, un metodo, un’opera possono generare è prezioso, insegna la misura, fornisce modelli di distanza.»
Nessun nome in particolare?
«Siamo cresciuti attraverso l’esperienza del Teatro Settimo. Certo amiamo il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio. In comune con Romeo Castellucci c’è una modalità di raccolta della materia (letteraria, teatrale, politica, filosofica) come puro oggetto di osservazione. Castellucci ne fa un sistema complesso, col suo sguardo da entomologo, in alcuni casi violento. Nel nostro procedere si insinua una componente emotiva che mi pare sostanzialmente assente nella sua visione, e questa differenza radicale ci dispone agli antipodi. Castellucci nella violenza trova la bellezza, nella bellezza noi sveliamo violenza. Non credo sia un caso che il sangue, pur non mancando nel nostro percorso, si stia allontanando dalla scena. Non per pudore, anzi: il sangue occupa lo stesso posto, ha lo stesso peso, provoca lo stesso sgomento, la stessa riflessione sull’essere e sulla giustizia. Ma sento che sta trovando una collocazione via via più interna e ferocemente intima. Non più una manifestazione esteriore e rappresentativa. Anche in questo”Faust”, pur essendo la morte onnipresente, il sangue non comparirà.»
Lo sguardo di Anagoor è spesso radicale: vi preoccupa mai la reazione del pubblico?
«Non è che non consideriamo la reazione del pubblico, al contrario ne teniamo conto e la desideriamo. Ci rivolgiamo al pubblico con degli interrogativi. Ma non ci spaventano le diverse forme di reazione, perché consideriamo il pubblico intelligente. Anche la persona meno informata è dotata di intelligenza e quindi della capacità di cogliere ed elaborare. Il teatro, l’opera, la musica sono per tutti.»
A proposito di questo, si invoca spesso un sedicente “rispetto per la musica” per criticare certe regie innovative (o non banalmente illustrative). Per te cosa vuol dire rispetto?
«Ti potrei rispondere che noi conserviamo un certo rispetto. Ma cosa significa? Riverenza nei confronti degli autori? Non essere audaci? Non ribellarsi all’auctoritas? Di fronte a questa eventuale obiezione mi viene da dire: da cosa dovremmo ribellarci? Cos’è un’opera altrui? Consideriamo mai che mettiamo le mani su opere di altri, ideate, progettate e composte da uomini di un altro tempo per uomini di un altro tempo? E cosa significa rimetterle in scena oggi? Quando andiamo a teatro a vedere ed ascoltare un’opera di Verdi, possiamo prescindere dal pensare che stiamo andando a vedere oggi non soltanto un’opera di Verdi, ma un’opera della prima o seconda metà dell’Ottocento, con le differenze che prima e seconda metà dell’Ottocento implicano? Possiamo essere così naïf? In nome di un’universalità? I temi universali si presenteranno da sé. Quella è la potenza dell’opera. Ma stemperare il carattere di oggetto particolare e straordinario di un’opera finisce per smorzarne la potenza, né fa opera da museo, buona per le visite della domenica e rassicurante, perché chiusa nella teca. Quello che serve è un ingresso notturno nel museo, rompere la teca e prendere in mano il vaso greco per toccarlo. È aprire il codice miniato e sfogliarlo per studiarlo. Serve dissotterrare il cadavere, riesumarlo. Non osservarne il sepolcro di marmo. È tutto tranne che la stasi.»