Riesce a mettere insieme con grande naturalezza il pubblico degli appassionati e quello di migliaia di giovani per cui le definizioni e gli stili non sono così rilevanti.
Riesce a coniugare proposte coraggiose e innovative con il coinvolgimento di tanti tipi diversi di ascoltatori (alla faccia dei tanti direttori artistici, spesso anche in Italia, che – a microfoni spenti, ma anche senza peli sulla lingua – continuano a credere che il pubblico certe cose non le capisca…).
È riuscita a innescare ottime strategie di supporto degli artisti nazionali, senza dovere ricorrere a inutili protezionismi e senza rinunciare a una forte vocazione cosmopolita.
È Ljubljana, bellissima capitale della Slovenia: il suo festival ha una storia lunga e prestigiosa (quella del 2017 è la cinquantottesima edizione) e il cartellone che si apre il 28 giugno è davvero stimolante. Un omaggio a John Coltrane con Archie Shepp e Reggie Workman, il duo tra Craig Taborn e Kris Davies, i travolgenti Shabaka & The Ancestors, trombettisti come Nate Wooley, Ambrose Akinmusire o Rob Mazurek, gruppi emergenti europei e americani come Velkro, Hearth, CP Unit, Amok Amor, artisti sloveni come Artbeaters, Cene Resnik o Igor Lumpert e molto altro, che potete comodamente controllare sul sito del festival.
Ma oltre al festival, il 2017 vedrà Ljubljana anche sede dell’annuale European Jazz Conference di Europe Jazz Network, un momento importantissimo per operatori e festival, che si confronteranno tra il 21 ed il 24 settembre presso il centro culturale/centro congressi Cankarjevdom, con ospiti del livello di Rabih Abou-Kalil e Rokia Traoré.
Abbiamo fatto una chiacchierata con Bogdan Benigar, che dirige il festival il collaborazione con Pedro Costa e che è tra le figure più rilevanti nel jazz europeo di questi anni, grazie alla sua capacità di lavorare in network e di essere un punto di riferimento per i linguaggi creativi più avventurosi.
Parliamo subito dell’edizione del festival che sta per iniziare: tra gli appuntamenti più attesi c’è certamente l’omaggio a John Coltrane, con due musicisti che hanno partecipato personalmente a alcuni capolavori di Coltrane, Archie Shepp e Reggie Workman, e tre musicisti generazionalmente più giovani, ma che sono già stabilmente considerati tra le voci più intense della loro generazione – Jason Moran, Amir El Saffar e Nasheet Waits. Cosa ti aspetti da questa combinazione e – al di là delle questioni tecnico-strumentali – qual’è secondo te l’eredità di Coltrane oggi?
«Ho sempre creduto in progetti che mettono insieme artisti di diverse generazioni, mi interessa che esperienze differenti si incontrino in un luogo, specialmente se parliamo del progetto e non solo del gruppo. In questa prospettiva la conoscenza, la perfezione esecutiva e il talento nel fare musica di questi artisti diventa ancora più importante. Vedo questo omaggio a Coltrane come una voce di unicità di ciascun musicista e Archie Shepp è in questo solo qualcuno che dirige e organizza la musica. Ci sono sempre stati molti Coltrane per me, e credo possa solo essere un’ispirazione di creatività e di ricerca di una voce originale per qualsiasi musicista. I musicisti suoneranno la musica di Coltrane, ma io guardo a questo progetto anche come un’occasione per le nuove generazioni di ascoltare l’eco di quello che vogliono diventare e per il pubblico di imparare che la grande musica non conosce limiti di tempo o confini».
Nel programma che tu e Pedro Costa della Clean Feed (che condivide con te la responsabilità curatoriale) avete costruito, alcune interessanti esperienze dagli Stati Uniti e dall’Europa (Inghilterra, Scandinavia, Germania) vengono messe in forte connessione con alcuni dei più stimolanti artisti che vengono dalla Slovenia. Come lavori su questo con Pedro, con che criteri e strategie?
«Non vorrei approfondire troppo questo aspetto perchè è qualcosa che preferisco rimanga solo nostro, ma ti posso dire che abbiamo un’ottima visione d’insieme delle progettualità (definite o meno che siano) dei migliori talenti della scena jazz europea e americana, che include anche gli artisti sloveni, che hanno un potenziale internazionale e la visione giusta per collaborare a livello globale. Con queste premesse, il punto non è tanto creare un buon programma artistico, quanto combinare tutto questo con la disponibilità dei singoli, le possibilità di budget e la capacità di rappresentare le nostre decisioni a un pubblico possibile».
Parlando della collaborazione con Pedro: come ti è venuto in mente di condividere il lavoro di direttore con un produttore/label manager? Quali sono le prospettive che l’avere un’etichetta discografica al tuo fianco porta al tuo progetto?
«Quando ho proposto a Pedro di lavorare con me, la mia idea era quella di avere una personalità ricca di conoscenze e che conoscesse i segreti del lavoro degli artisti da dentro. È più una questione di condividere la visione e quindi di potere pensare le migliori combinazioni nel fare il programma. L’idea della connessione tra l’etichetta e il festival si è rivelata un’ottima opportunità per gli artisti emergenti. Non è un aspetto rilevante nel momento della programmazione, ma una volta che il cartellone è formato, è uno strumento efficace di promozione dei musicisti tramite le uscite dell’etichetta. Specialmente per quelli sloveni. Mi verrebbe da dire che questo aspetto della collaborazione è connesso più con la strategia del Cankarjev dom, che organizza il festival».
Quali pensi siano le caratteristiche più interessanti degli artisti sloveni che hai supportato con il festival in questi anni? A volte ho la sensazione che viviamo in un’epoca in cui i giovani musicisti che per praticità chiamiamo “avant-jazz” condividono ovunque un lessico e strategie musicali con molte similitudini (bendato, difficilmente diresti che un quintetto viene dalla Polonia invece che dal Belgio), cosa che è al tempo stesso stimolante, ma anche disorientante, specialmente per quanto riguarda la circolazione degli artisti…
«Non penso di essere particolarmente d’accordo con questa analisi. Specialmente quando parliamo di pochi musicisti e compositori sloveni con linguaggi molto differenti e voci ben identificabili, che è la ragione per cui siamo interessati a loro. Ovviamente non percepisco alcun carattere “nazionale” nella loro musica, ma vedo le connessioni tra gli artisti che vengono da una stessa regione, perché condividono un’eredità culturale e qualche volta questo si può anche ascoltare nelle loro composizioni. Per farti un esempio, è molto raro che tutte queste personalità individuali di una certa scena suonino insieme, perché spesso, come è nel nostro caso, non vivono nemmeno più nella nazione d’origine, ma sono diventati parte delle scene di New York o Amsterdam o Vienna… Più versatili sono, più interessante è focalizzare su di loro il programma».
In cartellone ci sono alcuni dei nomi più in voga del jazz britannico, da Shabaka Hutchings a Alexander Hawkins, a Yusef Dayes… Pensi che questi artisti possano portare un nuovo pubblico al jazz?
«Lo stavano già facendo prima che ci accorgessimo di loro, perché gli artisti hanno la capacità di trovare il proprio pubblico prima degli organizzatori. Di norma un direttore artistico programma un artista quando ha già un suo pubblico e certamente, con questo aiuto, i musicisti possono raggiungere un pubblico più vasto. Credo meritino il massimo supporto, perché sono gli artisti guida della nuova generazione».
La Slovenia confina con l’Italia: che ne pensi della scena italiana? Lo scorso aprile, a Jazzahead a Brema, molti direttori artistici europei mi hanno confessato di essere molto curiosi della nuova scena italiana, ma di conoscerla poco. Pensi di lavorare in futuro su questo versante?
«Non abbiamo mai fatto questione di preclusione per nessuna nazione, un paio di anni fa abbiamo avuto Giovanni Guidi e Gianluca Petrella, ad esempio. In futuro cercheremo di dare maggior conto anche della nuova scena italiana, certo».
Raccontaci qualcosa di più sul pubblico del festival e di quello dei concerti della stagione invernale. Età, rituali, comunicazione, strategie…
«Ogni nuova idea richiede tempo perchè il pubblico apprezzi quello che vogliamo proporre nel cartellone. La cosa bella e brutta al tempo stesso è che siamo diventati tra i pochi messaggeri di una musica che i media generalisti totalmente ignorano, anche se devo dire che il programma è solo un aspetto del festival. Non è un nostro obiettivo quello di educare il pubblico, ma di dare loro una bella atmosfera dove apprendere l’uno dall’altro e godere la musica. Il punto è creare le circostanze per cui il pubblico riesce a “sentire” il clima del festival. Siamo convinti che ogni tipo di musica creativa possa raggiungere e soddisfare il pubblico senza bisogno di tante spiegazioni e di etichette. Anche quello che è serio può essere divertente».
Parliamo adesso del prossimo settembre, quando Ljubljiana ospiterà la European Jazz Conference del 2017. Il tema è “What if” e solleverà temi legati al sociale, come l’identità, il razzismo, il dialogo tra le comunità. Quali secondo te, brevemente, le potenzialità del jazz in questa prospettiva?
«Credo che oggi un artista di jazz non sia solo un artista di jazz, ma un artista in generale. Non penso possa considerarsi staccato dalla società in cui vive e dalle sfide che le migrazioni propongono. Non ci proponiamo di fornire delle risposte, ma di dare buoni esempi di come questi problemi possano portare a risultati positivi se si creano dei nuovi spazi per l’arte e per la condivisione della conoscenza».
Fai parte del board di Europe Jazz Network: su cosa state lavorando principalmente? Quale pensi sia la sfida più grande per il jazz europeo nel prossimo future?
«Come segretario del board, mi occupo non solo degli aspetti legali, ma anche dello sviluppo dello staff e degli associati. In generale cerco di ascoltare le opinioni degli associati e di combinarle con le opportunità progettuali che arrivano sul nostro tavolo da varie fonti. Cerchiamo di aiutare lo staff a condividere queste opportunità tra i membri e di informare a livello europeo su quello che stiamo facendo e i tanti risultati ottenuti».
Hai un sogno segreto come direttore artistico?
«Il mio sogno segreto è che la musica nuova possa essere completamente accettata come arte, così come accade per i film».
Tre dischi di artisti sloveni che suggeriresti a chi non conosce la scena jazzistica del tuo paese?
«Dico i nomi degli artisti più che i loro dischi: ascoltate Kaja Draksler, Dre Hočevar e Bowrain».
Cosa stai ascoltando in questi giorni?
«Mi piace moltissimo il nuovo disco di Karkhana, con i musicisti dal Libano, dalla Turchia e dagli Stati Uniti che apriranno il festival il 28 giugno».
La foto di apertura è di Nada Zgank.