L'elogio della lentezza

Il pianista Simone Graziano racconta il nuovo Snailspace, e il lavoro con Midj

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jazz

Si intitola Snailspace ed è pubblicato dalla Auand il nuovo disco del pianista Simone Graziano, una delle figure più interessanti emerse in questi ultimi anni sulla scena jazzistica italiana. Dopo il notevole riscontro ottenuto dal gruppo Frontal, il musicista fiorentino torna alla formula del trio, insieme al bassista Francesco Ponticelli e al batterista Tommy Crane.

Utilizzando sia il pianoforte che il pianoforte elettrico e i sintetizzatori, Graziano costruisce in questo ottimo disco una musica in cui confluiscono anche i linguaggi di quel “minimalismo” contemporaneo che è figlio dell’elettronica e delle scansioni ritmiche del rock prima ancora che dell’iteratività della scena contemporanea americana del secondo dopoguerra.

Grazie all’ormai collaudata sinergia con Ponticelli e al drumming davvero versatile di Crane, Graziano trova con Snailspace la chiave per veicolare l’articolazione proprie idee musicali dentro una formula molto efficace, diretta senza perdere in complessità, ma sempre aperta, anche nei momenti più emotivamente coesi, all’imprevisto.

Abbiamo approfittato dell’uscita del disco per fare una chiacchierata con Graziano, che è molto attivo anche nell’ambito dell’associazione dei musicisti jazz, Midj, nonché come curatore della rassegna A Jazz Supreme a Firenze.

Come nasce questo nuovo disco? Raccontaci qualcosa prima di tutto sul trio…

«Con Francesco Ponticelli sono tanti anni che collaboriamo e abbiamo condiviso diverse formazioni prima di approdare a questo trio. In questo arco di tempo, all’incirca tre anni, abbiamo cercato di indagare diversi aspetti di fare musica: le premesse con cui abbiamo iniziato erano di fare musica totalmente improvvisata, niente scrittura. Salire sul palco e suonare. Grande esperienza, ma non è durata a lungo. Dopo poco siamo passati all’esatto opposto, definiamolo pure il periodo elettronico: niente piano, solo fender rhodes, sintetizzatori, elettronica ed effettistica in quantità massiccia, basso elettrico e batteria. Anche questa esperienza molto importante, mi ha spinto a imparare degli strumenti nuovi e a mettere in discussione il mio modo di suonare: se suoni un rhodes come suoni il piano, nella migliore dell’ipotesi suoni male. Non è stato affatto facile né immediato ma oggi grazie a quell’esperienza quando suono un rhodes riesco a fargli dire qualcosa che mi rappresenta».

Come avete incontrato Tommy Crane?

«Dopo queste esperienze, cercavamo un batterista che avesse in sé entrambi gli ambienti che avevamo frequentato: la musica improvvisata, la musica elettronica, ma anche il rock e ovviamente il jazz. Ci venne in mente Tommy che avevamo da poco sentito a Siena con il gruppo di Ambrose Akinmusire e che ci aveva impressionato non poco. Mi piacevano le numerose soluzioni che riusciva a tirar fuori dalla batteria: a volte sembrava quasi un suono punk, a volte mi ricordava il mondo etereo di Paul Motian. Insomma, in una parola, fantastico. Abbiamo così organizzato un tour per marzo 2017 in Italia facendo una decina di concerti. Come mi piace pensare, credo che un musicista si renda conto nel primo istante della prima prova se il gruppo che ha creato durerà a lungo o meno, esattamente come accade nei rapporti d’amore. Il punto è interpretare i segnali che si ricevono nel modo corretto. Con Snailspace è accaduto qualcosa di simile».

Un elemento del progetto è la lentezza. Forse è un po’ lo spirito del tempo, dal momento che anche il nuovo disco di Tyshawn Sorey (anche qui un piano trio) riflette su questo, vuoi raccontarmi un po’ meglio le tue riflessioni in questo senso?

«Non sapevo che anche Tyshawn avesse dedicato attenzione alla lentezza, ma sentendo il suo ultimo lavoro, mi sembra coerente col suo pensiero musicale. Per fare questo album, come ti raccontavo poco sopra, ho impiegato all’incirca tre anni e considera che il mio ultimo lavoro in trio è stato registrato nel 2008, quasi dieci anni fa. Il perché di questo lungo lasso di tempo è nel desiderio di rispettare i miei tempi creativi: il mondo non ha bisogno di un “altro” disco e nemmeno io. La lentezza è veramente una forma di ribellione. Oggi se vuoi stare dietro alle esigenze del marketing in genere (etichette, promoter, festival) dovresti produrre un album nuovo ogni anno e sempre con un gruppo diverso. Questa logica è totalmente contraria al lavoro artistico che abbisogna di tempi lunghi di sedimentazione, di prove e di concerti. La differenza nella musica è fatta dal gruppo: penso al quintetto di Miles, al quartetto di Shorter, al trio di Jarrett, gruppi che esistono o sono esistiti per tanti anni, e ancora oggi per molti versi inarrivabili. Se vogliamo educare il pubblico, dobbiamo prima di tutto portare rispetto verso noi stessi dando ascolto ai nostri tempi artistici. Il mio elogio della lentezza, trae poi spunto da un bellissimo racconto di Luis Sepulveda, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza: una lumaca di nome Ribelle, dopo essere stata cacciata dal suo gruppo, viaggia alla ricerca del significato della lentezza. In questo modo, scopre che proprio grazie al suo muoversi a un tempo diverso da tutti gli altri animali, riesce vedere un mondo nascosto, più ricco e denso, solitario e silenzioso».

Rispetto a altre tue progettualità, in questo disco mi sembra che l’aspetto ritmico timbrico più legato al rock e a una sorta di iteratività minimalista sia più accentuato, mi sbaglio?

«Dici bene. Nel disco ci sono tre elementi a cui ho cercato di dare coesione: la reiterazione della musica elettronica, l’emotività del rock, la libertà della musica improvvisata. Il “mostro” che ne vieni fuori è Snailspace. Ci sono brani costruiti su una sola cellula ritmica ("Tbilisi") che si modifica progressivamente, altri dove esiste solo una linea melodica ("Neri"), altri talmente complessi che mi ci sono voluti tre anni per scriverli ("Aleph 3", "Emicrania") e dove l’elettronica si fonda col mondo acustico.

Come procede l’altro tuo gruppo, Frontal, che tante soddisfazioni ti ha portato in questi ultimi anni?

«Direi bene. Siamo in procinto di fare diversi concerti nella stagione autunno/inverno: dopo il Firenze Jazz Fringe Festival, saremo a Cormons Jazz and Wine a fine ottobre, poi a Forlì, a San Severo, a Siena e a Lugano. Perciò sto scrivendo materiale nuovo in vista di un “futuribile” album che però in virtù di quanto detto sopra registreremo solo quando ne sentiremo l’urgenza».

Quest’autunno curerai anche la rassegna A Jazz Supreme a Firenze; vuoi raccontarmi qualcosa di questa rassegna, i criteri, le strategie? Questa esperienza come ti ha cambiato (se lo ha fatto) la prospettiva di valutazione sui festival, le rassegne, la curatela?

«È stata ed è un’esperienza molto formativa. Il Musicus Concentus rappresenta per me il luogo dove ho ascoltato per la prima volta alcuni dei musicisti che più mi hanno influenzato: Tim Berne, Dave Douglas, Craig Taborn, Bill Frisell e potrei andare avanti per un’ora. Se in fondo in Toscana esiste una certa visione che rispetta la tradizione ma che guarda anche al futuro, sicuramente lo si deve anche al lavoro svolto da questa istituzione nel corso dei suoi trent’anni di attività. Ho cercato di tener fede all’idea che penso stesse alla base del lavoro ventennale svolto da Giuseppe Vigna: “tradizione in movimento”. Scegliere i musicisti in relazione alla loro capacità di introdurre elementi di novità nel linguaggio: questo rimane, per me, il punto da valorizzare. In questo senso la scelta di Claudia Quintet, Jim Black con Human Feel, e Rob Mazurek con Jeff Parker. Accanto a questi nomi ormai molto noti, abbiamo cercato di introdurre, musicisti più giovani che nonostante l’età stanno innovando il linguaggio sia sotto il profilo strumentale che compositivo: Reinier Baas in duo con Ben Van Gelder, Francesco Ponticelli e il suo nuovo sestetto, Gianluca Petrella con John De Leo. Riguardo ai festival, o rassegne italiane la mia prospettiva non è cambiata un granché, se non nell’importanza di dover dare più valore al jazz europeo, troppo poco preso in considerazione in Italia».

Parliamo ora del tuo impegno con Midj. Oltre alle tante cose su cui state lavorando, mi interessa capire con te un po’ come ti sembra la situazione, la fiducia o meno dei colleghi verso l’associazione, le cose su cui secondo te si potrebbe lavorare meglio etc.

«Domanda complessa. Penso che le ultime cose che abbiamo fatto, il concorso di composizione “L’Incontro” e il bando per le residenza artistiche internazionali A.I.R., siano stati due punti importanti per l’evoluzione dell’associazione. Al di là delle polemiche, spesso sterili, Midj colma una lacuna gigante del sistema statale italiano: l’attenzione verso la musica improvvisata che altrimenti non ci sarebbe affatto. Senza Midj chi si prenderebbe la briga di organizzare delle residenze per giovani musicisti o combattere per la tutela del diritto di improvvisazione o cosa più grande ancora, andare in Senato per cercare un giorno di avere una pensione? Detto ciò, il difetto attuale dell’associazione sta nella difficoltà di comunicare con efficacia il lavoro che abbiamo svolto e che svolgiamo. Ma stiamo correndo ai ripari e già dal prossimo ottobre avremo un ufficio stampa che si preoccuperà di divulgare le iniziative e le attività che stiamo realizzando».

I giovani musicisti italiani scontano una certa difficoltà a trovare visibilità in Europa. Al di là del progetto con gli Istituti Italiani di Cultura cui accennavi, quale credi siano gli strumenti che servirebbero per trovare un dialogo alla pari con i tanti talentuosi colleghi europei?

«In Italia manca totalmente la cultura del jazz europeo “attuale”. E io ne sono la prova concreta: sono stato al Südtirol Jazzfestival Alto Adige quest’estate nella veste di ascoltatore e c’erano solo musicisti europei, a me in gran parte sconosciuti, tutti veramente fantastici. In Italia siamo vittime dell’americanismo, ovvero se un musicista o un gruppo jazz sono americani sono fantastici e snobbiamo l’Europa. Un primo modo di avvicinarci al mondo europeo è quello di coltivarlo, di ascoltare i nostri colleghi d’oltralpe e i loro progetti, di invitarli nelle rassegne che curiamo e di consigliare ai promoter che conosciamo di chiamarli nei loro festival. Iniziare uno scambio artistico col mondo europeo mi sembra un buon punto di partenza per voler accedere all’Europa. Poi certo la totale assenza da parte delle istituzioni di un sostegno all’esportazione della musica improvvisata italiana all’estero non aiuta. Se avessimo un export office che tramite contributi pubblici pagasse le spese dei viaggi ai gruppi meritevoli di essere ascoltati in tutta Europa, come avviene ad esempio in Danimarca, per noi sarebbe molto più semplice».

Tra i tuoi colleghi europei quali ti incuriosiscono e piacciono di più?

«Mi piacciono molto Reinier Baas, e il suo approccio alla composizione, Elias Stemeseder e il suo pianismo raffinato e intelligente, Theo Ceccaldi e il suo virtuosisimo, il trio di Sylvain Darrifourcq “In Love with” tanto per citarne alcuni.

Dischi che ti hanno colpito in queste ultime settimane?

«L’ultimo di Sorey in trio di cui parlavamo, il nuovo di Ambrose Akinmousire A Rift in Decorum, alcuni vecchi dischi di Ahmad Jamal, Discombobulatrix di Reinier Baas, The Colour in Anything di James Blake, Find the Way di Aaron Parks. Ma sto ascoltando anche Metamorphosen di Richard Strauss con i Berliner diretti da Von Karajan e i 4 Etudes du Rythme di Olivier Messiaen».

I tuoi prossimi progetti?

«Si prospetta un autunno caldo, accanto al tour di Frontal e di Purple Whales, il progetto dedicato alla rilettura dei brani di Jimi Hendrix, dovrò registrare il nuovo album del tentetto di Beppe Scardino. A ottobre sarò ospite al festival di Galway per un concerto in piano solo e uno in duo con la violoncellista Naomi Berrill. Sempre ad ottobre inizierà il tour per la presentazione del disco Almost romantic di Cristiano Arcelli e a novembre uscirà per Clean Feed il disco di Francesco Cusa con Gabriele Evangelista e Carlo Atti From Sun Ra to Donald Trump».

La foto di apertura è di Angelo Trani

     

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