È uno dei batteristi jazz italiani più apprezzati e personali. È il veronese Zeno De Rossi, artista con una carriera all’insegna della flessibilità e della sensibilità, capace di passare senza problemi dall’elaborato jazz di Franco D’Andrea alle canzoni di Vinicio Capossela, passando per l’avventura del collettivo El Gallo Rojo.
Il suo più recente disco, Zenophilia, è appena uscito per Auand/El Gallo Rojo e lo vede alla testa di un trio con il sax alto (ma anche flauto basso quando serve) di Piero Bittolo Bon e il trombone di Filippo Vignato. Un disco dall’energia quasi primordiale, eppure modernissimo, essenziale e articolato al tempo stesso, un lavoro che – come hanno anche dimostrato i concerti di presentazione – è sorretto da una forza comunicativa freschissima, grazie alle trame ritmiche di De Rossi e alla telepaticità degli altri due notevoli vertici del triangolo.
Inizierei la nostra intervista dal nuovo disco, Zenophilia. Come nasce questo progetto? Come mai la scelta di un organico essenziale, ma inusuale come quello sax/trombone/batteria?
«Volevo da tempo sperimentare questo organico, cercavo un suono essenziale, qualcosa che potesse ricordare una marching band o una sezione fiati di rhythm’n’blues. C’è anche molto del mio amore per i ritmi di New Orleans, per il sound della Stax e quello per Ray Charles del periodo Atlantic, ma anche per la musica della cosiddetta scena downtown newyorkese degli anni Novanta. Mi era venuta voglia poi di riprendere in mano alcuni brani che non suonavo da anni, alcuni dal secolo scorso ed è stato bello ritrovarli e ripensarli per questo gruppo. Ho capito sin dalla prima prova che la cosa avrebbe funzionato molto bene, Piero e Filippo sono due musicisti straordinari, oltretutto funzionano benissimo insieme grazie al loro affiatamento sviluppatosi collaborando in diverse situazioni, tra cui il gruppo Bread and Fox di Piero».
Collaborando tu con molti musicisti di area jazz, ma non solo, mi sembra tu possa avere uno sguardo privilegiato sullo stato dell’arte della nostra musica, specie quella improvvisata. Quali i motivi di vanto, quali i problemi?
«I motivi di vanto sono sicuramente quelli di avere un alto numero di musicisti di altissimo livello che a mio parere non hanno niente da invidiare a quelli di altri paesi europei e nemmeno a molti americani. Il problema fondamentale in Italia è di sottrazione: gli spazi per questa musica sono sempre più ridotti e lo sono ancora meno le risorse messe a disposizione da parte dello Stato. Tutto questo si porta dietro anche una scarsa partecipazione giovanile come pubblico, perché evidentemente le nuove generazioni non sono educate all’ascolto di questo tipo di musica, e probabilmente la ignorano perché non hanno la possibilità di conoscerla».
Dopo molti anni di collaborazione con Franco d’Andrea, qual è l’insegnamento più importante che credi ti possa avere trasmesso? «Quello di cercare la propria strada sviluppando le proprie idee, continuando a sperimentare e cercando di andare il più possibile in profondità».
Come procede il trio con Bigoni e Pacorig?
«Proprio in questi giorni abbiamo registrato il nuovo disco che vedrà la luce il prossimo inverno. Siamo molto contenti del risultato e non vediamo l’ora di portarlo in giro il più possibile. Con loro mi sento veramente a casa».
I Guano Padano che fine hanno fatto?
«Siamo al momento fermi a causa dei grossi impegni di Asso [Stefana], dal momento che è impegnato in un tour mondiale con PJ Harvey oltre a partecipare a quello di Vinicio Capossela. Abbiamo parecchie idee in mente e se tutto va bene ricominceremo la nostra attività il prossimo autunno».
Dei tuoi dischi da leader – che personalmente a me piacciono mediamente molto – qual è quello che secondo te non è stato apprezzato quanto avrebbe meritato? (A me sembra che possa essere The Manne I Love!)
«Non saprei… rappresentano tutti dei momenti importanti della mia vita e per questo sono legato ad ognuno di loro. Un disco che per vari motivi è purtroppo passato quasi inosservato è Midnight Lilacs, in realtà un lavoro collettivo in compagnia di Chris Speed e Danilo Gallo con la straordinaria partecipazione di Marc Ribot. Probabilmente uno dei motivi è il fatto di averlo pubblicato solo in vinile in un’edizione limitata di 300 copie».
Sei stato tra i primi musicisti in Italia a stabilire un contatto reale con gli artisti che gravitavano attorno alla scena downtown newyorkese. Come pensi sia cambiata quella scena e quali altre scene ti interessano oggi?
«Oggi non seguo nessuna scena in particolare. Ci sono in giro tantissimi giovani musicisti di grandissimo valore ma sinceramente è da parecchio tempo che non sento in ambito jazz qualcosa che mi colpisca in modo profondo. Sicuramente è un mio limite dovuto probabilmente al fatto di aver ascoltato in passato troppa musica, in particolare quella della scena “downtown” newyorkese che va dalla fine degli anni Ottanta fino ai primi anni del 2000. Molta di quella musica mi ha segnato in profondità: sicuramente è quella a cui mi sento più legato anche perché l’ho vissuta negli anni della mia formazione. Penso sia stata una stagione musicale particolarmente fertile dalla quale sono scaturiti grandi musicisti come Steve Coleman, Bill Frisell, Tim Berne, Marc Ribot, John Zorn, Dave Douglas o Don Byron, solo per citarne alcuni. Fortunatamente sono tutti ancora in attività e molti di loro continuano a produrre lavori interessanti – anche se sinceramente di tutti loro continuo a preferire i dischi di quella stagione – ma d’altro canto onestamente non vedo in giro personaggi con una personalità altrettanto forte. Quello che continua ad emozionarmi è ad esempio ascoltare il suono di Lee Konitz: più invecchia e più è incredibilmente bello. Per me lui rappresenta l’essenza del Jazz, anzi per me lui è “IL” jazz».
La lista dei musicisti con cui hai collaborato e collabori è molto lunga, ma c’è ancora un sogno nel cassetto, qualcuno con cui vorresti lavorare?
«Mi ritengo molto fortunato per aver avuto la possibilità di suonare con molti dei miei musicisti preferiti. In realtà il prossimo ottobre si concretizzerà un altro sogno, ovvero la realizzazione di un nuovo progetto collettivo che condividerò con Pasquale Mirra, Giorgio Pacorig, Filippo Vignato e il grande Hank Roberts, uno dei miei eroi. Il sogno di sempre poi sarebbe quello di suonare almeno una volta nella vita con Bill Frisell, chissà...».
Cosa ascolta Zeno De Rossi in queste settimane?
«Sto ascoltando parecchia musica recente, cosa che non mi capitava da un po’ perché alla fine mi ritrovo quasi sempre ad ascoltare musica del secolo scorso… Tra le cose che ho apprezzato di più citerei Costumes Are Mandatory di Ethan Iverson, The Declaration of Musical Indipendence di Andrew Cyrille e The Bell di Ches Smith. Poi ascolto molto Sam Amidon che trovo straordinario e senza dubbio è stata la più bella scoperta che ho fatto negli ultimi anni. Se vuoi puoi aggiungerlo alla lista dei musicisti con cui vorrei suonare…».