Il primo disco jazz mai inciso è di una donna afroamericana

100 anni fa Mamie Smith and her Jazz Hounds incidevano "Crazy Blues", il disco destinato a cambiare il corso della musica del Novecento

Mamie Smith “and her Jazz Hounds” sulla copertina dello spartito di "Crazy Blues"
Mamie Smith “and her Jazz Hounds” sulla copertina dello spartito di "Crazy Blues"
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Sono stati molti, nel 2017, a celebrare il “centenario della nascita del jazz”, allargando forse in modo eccessivo l’importanza della pubblicazione del primo disco che recava la parolina “jazz”, all’epoca scritta “jass”, sull’etichetta.

Quello storico 78 giri segnò infatti l’inizio della parabola della band che lo incise, l’Original Dixieland Jazz Band di Nick LaRocca da New Orleans, ma per quanto riguarda il jazz fu una rondine che non fece primavera. Per arrivare infatti alle incisioni di quello che chiamiamo il jazz “classico” – King Oliver, Louis Armstrong, Jelly Roll Morton – si devono attendere diversi anni, almeno un lustro. Il primo musicista africano-americano a incidere un disco di jazz strumentale è Kid Ory, nel 1922, con il suo “Kid’s Creole Trombone” realizzato per una oscura etichetta californiana, la Nordskog. 

Le porte dell’industria discografica si aprirono in modo massiccio alla musica e ai musicisti africano-americani grazie a un’altra incisione, che ebbe un effetto ben più significativo del disco della ODJB. Fu il successo di “Crazy Blues” scritto da Perry Bradford e interpretato da Mamie Smith, inciso il 10 agosto del 1920 per la OKeh, a far scoprire all’industria del disco che esisteva un serbatoio di pubblico pagante ancora inesplorato, costituito dagli africano-americani emigrati in massa dal Sud agricolo verso le città industriali del Nord, che a decine di migliaia avevano mutato la loro condizione da braccianti agricoli in operai di fabbrica e lavoratori del terziario, e che avevano in tasca un mezzo dollaro che erano disposti a spendere per un prodotto musicale che rispecchiasse la loro cultura. 

Fu il successo di “Crazy Blues” a far scoprire all’industria del disco che esisteva un serbatoio di pubblico pagante ancora inesplorato.

Sia la stampa quotidiana africano-americana che i musicisti cresciuti con il ragtime da tempo cercavano di convincere le etichette discografiche a investire in artisti e repertorio neri, ma ci volle la OKeh per abbattere il muro del pregiudizio. L’etichetta era stata fondata nel 1916 da Otto K. E. Heinemann, responsabile della filiale americana della tedesca Odeon Records (il nome dell’etichetta, destinato a essere spesso mal scritto come “Okey”, era in realtà derivato dalle 4 lettere iniziali del nome del fondatore). Heineman intuì l’importanza del mercato “etnico” producendo dischi in tedesco, ceco, polacco, svedese, italiano e yiddish. destinate alle comunità di immigrati negli Stati Uniti. Alcune matrici venivano importate dall’Europa, altre venivano incise ex-novo dalla OKeh a New York.

Heinemann e Fred Hager, direttore musicale della OKeh, strapparono nel 1919 alla Columbia il talent scout che ha cambiato il volto della popular music americana: Ralph Peer, cui si devono i primi dischi di blues e di country, di Buddy Holly e di Agustin Lara, e che negli anni Quaranta si specializzò in orticoltura. Ma non divaghiamo. Fu Peer ad accettare la proposta di Perry Bradford e a registrare il 10 agosto 1920 “Crazy Blues” con Mamie Smith “and her Jazz Hounds”. Il disco entrò in distribuzione solo nel novembre di quell’anno ma il suo successo fu tale da far sì che la OKeh assumesse il pianista e compositore Clarence Williams per dirigere il dipartimento "Race records": dischi di musica africano-americana incisi da artisti neri e destinati a essere venduti nelle comunità nere. La OKeh faceva parte della famiglia internazionale della Carl Lindstrom, e i dischi della OKeh venivano distribuiti dalle altre etichette del gruppo, come la Odeon e la Parlophone, massimizzandone l’impatto sul pubblico europeo.

Mamie Smith “and her Jazz Hounds” sulla copertina dello spartito di "Crazy Blues"

Mamie Smith era una veterana dello spettacolo africano-americano, con una carriera già più che ventennale, avendo iniziato da bambina come ballerina per poi arrivare ad Harlem dove era diventata cantante; Perry Bradford aveva iniziato nei minstrel shows per approdare poi a New York dove si arrabattava in vari ruoli nello spettacolo e nell’industria musicale, in cui il blues, specie dopo la pubblicazione di “St. Louis Blues” di W. C. Handy nel 1912, si stava affermando nel settore della musica a stampa. Il brano “composto” da Perry Bradford era forse ancora più antico: noto con un testo osceno come “Baby, Get That Towel Wet” era già stato riadattato da James P. Johnson per il suo “Mama and Papa’s Blues”, e lo stesso Bradford l’aveva usato per “The Broken Hearted Blues” (1917), “The Wicked Blues” e “Harlem Blues” (1918). Con quest’ultimo titolo Mamie Smith cantò il brano nei teatri di New York per la rivista The Maid of Harlem e fu il suo successo dal vivo a ispirare Bradford a insistere con i produttori discografici per avere finalmente un’incisione di un blues da parte di un’artista africano-americana.

La Victor Records incise un provino con la Smith ma non ne fece poi di nulla, a causa anche dell’aperta ostilità di parte del pubblico e della industria musicale all’idea di avere artisti neri che incidevano musica nera. Hager e Peer decisero di provare, e una prima seduta si tenne nel febbraio 1920 con il risultato della pubblicazione del 78 giri OKeh 4113, con “That Thing Called Love” e “You Can’t Keep a Good Man Down”: due brani di Bradford, ma non due blues, eseguiti con una band sconosciuta, probabilmente fatta di musicisti bianchi. Il successo del disco non fu travolgente, ma sufficiente alla convocazione di una seconda seduta.

Mamie Smith “and her Jazz Hounds” sulla copertina dello spartito di "Crazy Blues"

A questo punto i dettagli si fanno confusi. Nella sua autobiografia il grande pianista di stride Willie “The Lion” Smith rivendica la “scoperta” di Mamie Smith, e l’organizzazione della seduta di incisione dell’agosto 1920, negando qualsiasi partecipazione di Perry Bradford, che secondo The Lion quel giorno non si fece neppure vedere in studio. Diversa la versione di Bradford che nella sua autobiografia rivendica di aver non solo organizzato la seduta d’incisione ma di essere stato lui a sedere in quell’occasione al pianoforte. 

A favore della versione di The Lion gioca la foto di Mamie Smith e la sua band pubblicata dallo stesso Bradford in copertina della prima edizione a stampa del brano, in cui Willie “The Lion” è riconoscibile al piano. Dei “Jazz Hounds” quel giorno in studio faceva parte certamente un cornettista, che secondo The Lion era Addington Major, il musicista che compare nella foto, ma secondo Bradford e la maggioranza degli storici del jazz era invece Johnny Dunn, fondatore e star della band, stranamente assente nell’immagine. Gli altri componenti del gruppo sono quelli che si sentono nel disco: Ernest Elliot al clarinetto, Dope Andrews al trombone e Leroy Parker al violino. Ma dato che i registri della OKeh non sono arrivati fino a noi i dettagli di questa seduta di incisione non saranno probabilmente mai chiariti in modo inequivocabile. 

Quello di cui siamo sicuri è che il 10 agosto 1920 Mamie Smith con un gruppo di musicisti africano-americani incise “Crazy Blues”.

Mamie Smith “and her Jazz Hounds” sulla copertina dello spartito di "Crazy Blues"

 

 

Quello di cui siamo sicuri è che il 10 agosto 1920 Mamie Smith con un gruppo di musicisti africano-americani incise “Crazy Blues”, pubblicato poi in novembre dalla OKeh con il numero di catalogo 4169, e che questo disco trasformò la popular music degli Usa. Malgrado il suo titolo, il brano non è un blues nel senso convenzionale del termine, e profuma ancora delle sue origini nel teatro musicale. I classici ritornelli blues di dodici battute sono infatti intercalati con ritornelli di 16 battute, come nella canzone americana classica. Dopo quattro battute d’introduzione arriva il primo ritornello di 16 battute, poi abbiamo uno di 12, un altro di 16, due di 12 e uno finale di 16, per un totale di sei chorus prima della coda “...oh, those blues”.

spartito di "Crazy Blues"

La canzone è interamente scritta, ma il tempo moderato permette a Mamie Smith di accentuare la propria espressività con vibrati e glissandi, sottolineati da trombone e violino, mescolando tecniche operistiche e popolari. Il “crazy” del titolo non è una esagerazione scherzosa: nel testo, denso di allusioni anche shakespeariane come “There’s a change in the ocean, Change in the deep blue sea” che rimanda al “sea change” della Tempesta, si descrive una vera e propria follia amorosa descritta in termini drammatici come “Now I can read his letters, I just can’t read his mind/I thought he’s loving me, he’s leaving all the time” destinata a sfociare in suicidio, violenza o tossicodipendenza: “I’m gonna do like the Chinaman, go and get some hop / Get myself a gun, and shoot myself a cop”. Parte del successo del blues è anche l’evocazione di un lato oscuro fatto di ossessioni e privo di inibizioni in contrasto totale con la musica “popolare” dell’Ottocento, con le romanze da salotto di Stephen Foster, e ben più vicino alle atmosfere “dark” delle opere liriche più celebri come Rigoletto, Cavalleria Rusticana o Faust.

Parte del successo del blues è anche l’evocazione di un lato oscuro fatto di ossessioni e privo di inibizioni in contrasto totale con la musica “popolare” dell’Ottocento, ben più vicino alle atmosfere “dark” delle opere liriche più celebri.

Le cifre che spesso si leggono sono esagerate, ma il disco fu per l’epoca un grande successo. L’etichetta dichiarò di averne vendute 75.000 copie in due mesi. Grazie ai profitti di questo titolo la OKeh mise in cantiere il suo catalogo di “race records” impiantando uno studio a Chicago e registrando tra gli altri gli Hot Five e Hot Seven di Louis Armstrong.

Le altre etichette si buttarono a rotta di collo alla ricerca di cantanti donne di blues per imitare il successo della OKeh, duplicandone possibilmente anche il cognome. Da qui la teoria delle Smith: Ada, Clara e la stessa Bessie, destinata a diventare l’Imperatrice del Blues. Mamie da parte sua ebbe grande successo fino alla metà degli anni Venti per poi sparire dalla scena discografica continuando ad esibirsi dal vivo almeno fino al 1931. Dieci anni dopo ricomparve ma questa volta sugli schermi cinematografici, in musical e soundie, fino al 1942. Tuttavia quando morì, quasi esattamente 26 anni dopo la sua più famosa incisione, il 16 agosto 1946, era povera in canna e fu sepolta in una fossa comune.

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