Non è forse una coincidenza che due dei più promettenti giovani pianisti jazz italiani, Enrico Zanisi (classe 1990) e Alessandro Lanzoni (classe 1992) pubblichino in questo periodo due dischi di pianoforte solo.
Non è forse una coincidenza perché l’etichetta discografica è la medesima, la Cam Jazz, perché i due musicisti si “inseguono” (idealmente, va da sé) da quando hanno vinto il Top Jazz nella categoria “nuovo talento” un anno di seguito all’altro, ma anche forse perché la formula del recital pianistico solitario è sentita generazionalmente come un momento formativo forte, di grande significato.
Non è sempre stato così nel jazz: per strumentisti che da subito hanno trovato nella formula solitaria un momento centrale nel proprio percorso (da Art Tatum a Keith Jarrett), altri l’hanno affrontata solo in un periodo di relativa maturità (pensiamo a Andrew Hill, che si avvicina a questa modalità solo alla metà degli anni Settanta) o praticamente mai (Horace Silver ad esempio).
Zanisi e Lanzoni sono cresciuti in un mondo già saturo di documentazione e di riferimenti di ogni tipo e in cui il “portfolio” del buon jazzista deve dimostrare versatilità in ogni contesto. Per non dire del sempre vivido ruolo che il pianista in solo continua a avere nell’immaginario collettivo, da Lang Lang a Ezio Bosso, da Einaudi a Pollini, giù giù fino a chi sapete voi…
In Piano Tales, Zanisi dichiara da subito la natura “narrativa” del suo monologare a 88 tasti, ma anche Lanzoni, nel suo Diversions, non si muove molto differentemente, magari con un’apparente intenzione digressiva, ma sempre strettamente aderente a quello che alla fine – fatta la tara su qualsiasi malizia – non può che essere un discorso estremamente personale e intimo, autobiografico nella misura in cui è onesto e non potrebbe essere altrimenti.
Sono due lavori, quelli di Zanisi e Lanzoni, in cui non si può non ammirare la grande maturità strumentale, la solidità della preparazione che non concede alcuna sbavatura armonica, ma nemmeno di costruzione del discorso solista. I temi sono in gran parte dei due pianisti: alcuni potrebbero non essere nemmeno “jazz” (ma è chiaro che il riferimento e la tradizione cui si fa riferimento è principalmente quella): Zanisi ripesca però in coda al disco anche un’aria dal Tannhäuser wagneriano e uno standard come “Spring Can Really Hang You Up the Most”; Lanzoni sceglie invece un Nocturne del compositore Lowell Lieberman e l’onnipresente “All The Things You Are”.
Difficile trovare momenti “sperimentali” o di evidente scarto dalla tonalità nel pianismo di Zanisi e Lanzoni (dei due è forse quest’ultimo quello a mettersi un po’ più in gioco da questo punto di vista): sarà una cosa generazionale? Sarà che, data la natura intima di questi lavori, c’è una – ovviamente augurabile – serenità dovuta all’età e che non spinge a interessarsi dei grumi, degli spigoli, ma solo della consonanza (pur in una concezione evoluta, pienamente novecentesca)?
Sono pianisti davvero splendidi, questi due giovani ragazzi: hanno un controllo della tastiera e della forma che non teme rivali e entrambi i dischi rivelano momenti davvero riusciti, quello che continua a rimanere per me un piccolo mistero (ma mi riprometto di chiederlo loro personalmente) è – al netto ovviamente delle scelte estetiche del produttore – è come mai un sacco di possibili stimoli (magari meno “aggraziati”) che animano le culture – giovanili o meno – di oggi, mi sembrino così lontani da queste, pur bellissime note.