Da oltre cinquant’anni era il direttore rossiniano per antonomasia, spentosi ieri proprio a Pesaro, sua città d’adozione artistica, la città di Rossini. A 89 anni compiuti, era il faro di riferimento e ovunque, nel mondo, fra teatri grandi e piccoli, se si metteva in cartellone un’opera di Rossini il primo nome che veniva in mente come possibile direttore era il suo. Ancora il 28 febbraio, a Pesaro, per le classiche celebrazioni del non-compleanno di Rossini: non era riuscito a salire sul podio, come da programma, ma aveva comunque voluto essere presente in sala. E questa settimana la sua agenda avrebbe previsto un ennesimo “Turco in Italia” a Bologna.
Fino all’ultimo, Alberto Zedda è stato attivissimo nel segno di quel Rossini con cui rimarrà eterna l’identificazione, di quel Rossini che finiva anche per stargli un po’ stretto, quando si rammaricava che i teatri non volevano affidargli quasi altro che sue partiture. Ma se oggi parliamo di Rossini, se oggi le sue opere sono tornate sui palcoscenici di tutto il mondo, dopo un secolo di oblio, è a lui in prima istanza che lo dobbiamo. Cresciuto fra gli studi classici e filologici, si era dedicato alla musica relativamente tardi. Ma fu proprio la peculiare sua formazione che gli permise di mettere a fuoco un problema fino ad allora invisibile: la distanza oggettiva fra le partiture operistiche in uso nei teatri e quanto avevano realmente scritto i rispettivi autori. Sul finire degli anni Sessanta confezionò dunque quell’edizione critica del “Barbiere di Siviglia” destinata a cambiare la storia: la prima edizione critica di un’opera del grande repertorio italiano, condotta con gli stessi scrupoli con cui all’estero si producevano edizioni di Bach o di Mozart. L’affidò all’intuito di Claudio Abbado, cambiando così radicalmente la visione esecutiva di Rossini; avviò poi con Philip Gossett e Bruno Cagli il recupero editoriale di tutte le sue opere sotto gli auspici della Fondazione “G. Rossini” di Pesaro; con Gianfranco Mariotti coinvolse infine la città di Pesaro nell’insperata avventura di riportare le stesse opere nuovamente sulla scena, in quel Rossini Opera Festival a cui tutto il mondo teatrale ha poi attinto. E gli effetti benevoli, va sottolineato, si sono ripercossi sul gusto esecutivo di tutto il repertorio italiano ottocentesco, ben al di là di Rossini.
Ma al di là del filologo musicale, del direttore d’orchestra, dell’organizzatore teatrale, del direttore artistico su scala internazionale, del musicologo e del didatta anche a livello universitario, una caratteristica umana, sopra a tutte, va ricordata di Alberto Zedda: quell’entusiasmo che è stato il fuoco sacro di ogni sua impresa, che anche nei momenti di maggior debolezza si riaccendeva al solo salire sul podio, e riesplodeva ogni volta che incontrava giovani cantanti desiderosi di apprendere i segreti dello stile rossiniano, giovani musicologi con cui discutere i problemi della filologia operistica. Il sorriso contagioso che gli illuminava anche gli occhi, la bonarietà e minutezza da folletto sempre pronta ad esplodere in spaventose infuriate di fronte a ragioni artistiche calpestate, quella umiltà e disponibilità a dare sempre ascolto a tutti erano in grado di coinvolgere e travolgere ogni persona che gli si avvicinava, come in un crescendo rossiniano.