Le città sonore di Eloisa Manera

La violinista racconta il suo progetto dedicato a Italo Calvino

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jazz

È una musica avventurosa e ricca di profumi quella immaginata e realizzata dalla violinista Eloisa Manera, musicista che da qualche tempo si sta segnalando per una felicemente inquieta versatilità, che l’ha portata recentemente alla pubblicazione di un disco originale e affascinante come Invisible Cities (Aut Records), ispirato all’omonimo libro di Italo Calvino.

Nel disco, che coinvolge alcuni dei più significativi jazzisti creativi di casa nostra, si attraversano infatti atmosfere e momenti molto diversi, ma accomunati da una tensione espressiva davvero intensa.

Per conoscere meglio il lavoro di Eloisa Manera, l'abbiamo intervistata.

Partiamo da Invisible Cities: come mai l’idea di ispirarsi al libro di Calvino?

«L'idea iniziale era quella di creare un progetto che potesse assomigliarmi, all'interno del quale poter trovare una corrispondenza artistica che andasse oltre l'organizzazione di un insieme di suoni, ma che potesse diventare un'architettura musicale accompagnata da immagini video e danza, prendendo l'avvio da uno spunto letterario: una sorta di reinterpretazione di un libro tramite la traslazione delle parole in suoni, immagini, movimento... mettendo al centro di tutto la musica. Parlerei poi di istinto naturale, vicinanza immediata, "risonanza per simpatia" intellettuale. Calvino è uno di quegli autori che mi rendono fiera di essere italiana, un patrimonio dell'umanità che mi è venuto naturale omaggiare con la rilettura musicale di uno dei suoi libri più belli e attuali. Le città invisibili sono ancora oggi capaci di parlare all'uomo dei suoi paesaggi interiori ed esteriori, attraverso un gioco di specchi che riflette il contemporaneo e fa riflettere».

Sono d’accordo con te. Quali riflessioni ti ha suggerito?

«È un libro che porge domande, più che dare delle risposte e per questo mi da ha sempre molto affascinato. Dal punto di vista musicale è stato uno stimolo grandissimo, poiché avevo la possibilità di aprire finestre su paesaggi ad ampio spettro. La mia è una rilettura attraverso le 11 categorie, che danno i titoli ai brani (Le Città e i morti, e il desiderio, continue, sottili, eccetera) e non attraverso le 55 singole città, che hanno tutte affascinanti nomi di donna. È un libro talmente denso e caleidoscopico che un artista potrebbe lavorarci sopra una vita intera senza esaurire mai del tutto gli spunti che offre». Questo lavoro è stato fra l'altro anche l'oggetto della tesi finale del mio secondo biennio in Conservatorio».

Nel disco sono alternati dei duetti improvvisati a altre composizioni per settetto. Come hai costruito questi pezzi e che spunti hai fornito per le improvvisazioni?

«Mi piaceva ricalcare un aspetto della struttura del libro, ovvero il fatto che ogni capitolo sia aperto e chiuso da dei "duetti" onirico-filosofici fra il Gran Kahn e Marco Polo. In questi interstizi dialogici emerge rapidamente (precisamente alla fine del primo capitolo) una sorta di riflessione metalinguistica. Calvino descrive così il modo di esprimersi dell'avventuriero veneziano: "Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d'orrore, latrati o chiurli d'animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi". Più passa il tempo e più il viaggiatore fa proprio il codice linguistico orientale, ma i due si accorgono che la forza espressiva intrinseca negli scambi dei loro primi incontri è irrecuperabile. Le cose raccontate in modo formalmente corretto ora rimandano il Kahn a quegli emblemi che le rappresentavano senza filtri, in modo sia labile che immediato. Ovvero le cose rimandano ai segni che, in forma di gesti improvvisati, volevano essere figure simboliche degli oggetti stessi del racconto. Per questa ragione mi premeva che i duetti fossero delle improvvisazioni libere, senza costruzione razionale previa e che potessero essere i nostri gesti musicali istintivi a guidare il discorso, perseguendo la via dell'assenza di scudi protettivi e di formule linguistiche precostituite. Questo modo di procedere, con un approccio liberamente empirico, ha riguardato l'esecuzione dei duetti, il momento del suonare. Mi interessava che i dialoghi rimanessero fuori da qualsiasi tipo di categoria musicale e che fossero il più possibile "nudi". A posteriori abbiamo scelto quali frammenti potessero andare bene e successivamente abbiamo inserito i field recordings e i suoni "extra" che si sentono in alcune tracce di questi duetti».

Come hai scelto i musicisti per questo progetto?

«È un onore per me poter avere vicino dei musicisti di tale levatura: sono le persone ideali, capaci di entrare nello spirito di questa musica che sta in bilico fra la scrittura e l'improvvisazione. Non tutti i musicisti sono fatti per suonare tutta la musica e questi sono quelli giusti, poiché ognuno dà un contributo interpretativo fondamentale. Le esperienze dei live fatti finora confermano un'ottima presenza umana, un'attenzione, un ascolto, un peso artistico, un dialogo, una messa a disposizione attiva e propositiva che reputo rari e preziosissimi. Alcuni musicisti li conoscevo già da diversi anni e avevo avuto modo di collaborare con loro in altri progetti. Si tratta di Roberto Zanisi, Gianluca Barbaro, Andrea Baronchelli e Ferdinando Faraò. Ho avuto il piacere di conoscere Walter Bonnot perché sono stata ospite in un suo disco uscito qualche anno fa (Drops) e mi è venuto naturale chiedergli un contributo. Danilo Gallo mi è stato vivamente consigliato da Zach Broch, dopo aver ascoltato il midi-file del primo brano che stavo scrivendo ("Continuous Cities"). Ero a New York quando mi disse che secondo lui Danilo era la persona perfetta per il mio progetto. Pasquale Mirra e Piero Bittolo Bon li conoscevo di fama, li avevo ascoltati dal vivo, li conoscevo artisticamente ma non personalmente. Mi sento fortunatissima che gli ultimi tre musicisti che ho citato abbiano aderito al progetto. Sono felicissima dell'alchimia di questo gruppo nel suo insieme: funziona!».

Nel disco si percepiscono molte suggestioni geografiche e sonore, alcune delle quali legate alla tradizione popolare e all’oriente. Ci racconti qualcosa su questo?

«Mi ricollego a quanto ti raccontavo poco fa. Con queste "addizioni" intendevo stimolare delle suggestioni su dei paesaggi sonori (luoghi sia interni che esterni) e/o oggetti concreti: li percepisco sia come ancoraggi al reale, che come possibili trampolini di tipo semiotico/astratto. Il tipo di strumentazione di Roberto Zanisi legata ai paesi mediorientali e alcuni di questi innesti sonori a cui mi riferivo poco fa cercano di sottolineare l'intersezione e l'incontro del mondo Orientale con quello Occidentale. Ad esempio in "Hidden Cities" sentiamo intercalare il canto di un Muezzin registrato ad Istanbul, con i suoni degli strumenti del duo e suoni non ben identificabili tipo di stoviglie metalliche, quasi a suggerire il retro bottega nascosto di un luogo dove si lavora, ci si affaccenda, ci si muove: un ristorante cinese? una fabbrica in Birmania? Oriente e Occidente si alternano e intrecciano quindi sia all'interno dei duetti stessi (con il dialogo fra lo strumento di origine cremonese e la rosa di strumenti di Zanisi), che nell'alternanza fra i duetti e i brani in sestetto, caratterizzati da una scrittura che si rifà alla tradizione europea e che subisce forti influenze della musica d'oltreoceano. L'Oriente è tirato in causa per rievocare le atmosfere del Milione di Marco Polo, che sono poi le aree geografiche a cui è riferito il libro di Calvino».

Oltre a questo progetto, mi interessa qualche riflessione sul tuo lavoro in solo con l’elettronica. «Il lavoro in solo e quello delle Cities si sono intersecati, poiché mentre stavo cominciando a lavorare alla "musica calviniana" ho conosciuto Gianluca Cangemi di Almendra Music, che mi ha proposto di avventurarmi in quello che poi è diventato Rondine. Le produzioni si sono attraversate al punto tale che tutti i field recordings che stavo raccogliendo per le Cities, sono in realtà finiti nei brani del solo. La gestazione è stata molto libera e anche piuttosto rapida. Non pensavo alla questione della realizzazione live, mentre pochi mesi dopo la registrazione mi sono ritrovata a doverlo presentare all'Auditorium Rai di Palermo e mi sono dovuta attrezzare. Ho messo insieme i consigli di Todd Reynolds sui macchinari e quelli del team di Almendra sulle questioni tecnico-pratiche e sono riuscita a venirne a capo. Attualmente sono in una fase di passaggio, in un ibrido tecnico per così dire».

Spiegami bene questo ibrido… «La questione più delicata del solo è per me il controllo dell'audio, intendo dire soprattutto rispetto alla gestione dei volumi perché ci sono da modulare numerosi strati ed è importante la relazione dinamica fra ogni voce in uscita. Per tenere bene a bada quest'aspetto per ora ho rinunciato a molti effetti timbrici che potevo ottenere passando con una scheda audio nel computer, usando Ableton Live. Ora mi sto piano piano riorganizzando. Sono arrivata a semplificare all'osso per avere spazio a nuove possibili complicazioni, ma sicuramente realizzate con altre modalità tecniche. Di sicuro ho capito che non è buono che il suono del violino passi dal computer o per lo meno io al momento non voglio più gestirlo in questo modo mentre suono… almeno in questa fase è così. Ho bisogno di sperimentare altre soluzioni: chissà mai che non mi debba ricredere, tornare indietro, oppure fondere gli elementi passati con le nuove esperienze».

Collabori o hai collaborato anche con artisti di area pop come Marlene Kuntz, Malika Ayane, La Crus… Cosa chiedono al tuo violino questi artisti?

«Precisione di intonazione, precisione ritmica e pulizia del suono. Con questi artisti parliamo principalmente di collaborazioni di tipo discografico soprattutto in quartetto d'archi o ensemble d'archi, qualche anno fa».

Parliamo di violino. Quali i tuoi riferimenti nella musica afroamericana e improvvisata? Regina Carter o Leroy Jenkins? Ovviamente la domanda, posta così, è giocosa, ma mi interessa una tua rapida riflessione sul ruolo del violino oggi.

«Il tuo riferimento è rivolto al violinismo della tradizione americana, ma non dimentichiamo che anche la Francia ha da dire qualcosa in questo campo. Forse sceglierei una via di mezzo fra i due. Adoro la dimensione poetica di Mark Feldman, che trovo molto ispiratrice, anche se a detta dei violinisti jazz mainstream americani, lui "non è jazz" e viene addirittura collocato all'interno della musica contemporanea. C'è poi una scena di giovani che io reputo straordinari: Zach Broch forse fra tutti è l'esempio più significativo di questa generazione e secondo me anche il migliore perché unisce intelligentemente grande capacità tecnica con profonda conoscenza del linguaggio e freschezza compositiva. Oltreoceano troviamo anche il giovanissimo e imbattibile Billy Contreras (uno Speedy Gonzales/Paganini cresciuto a suon di bluegrass e soli coltraniani) e Christian Howes (che organizza interessanti workshop dedicati agli strumenti ad arco in Ohio). Trovo molto affascinante anche Mat Maneri che ha un suo approccio del tutto personale e fuori dagli schemi, soprattutto per quanto riguarda il suono e l'intonazione. In generale mi affascinano i musicisti che sento che portano avanti una ricerca seppur estrema o di confine all'interno di un linguaggio contemporaneo».

Quali i tuoi prossimi progetti?

«Sto collaborando da diversi mesi con Stefano Greco, in arte DJ Fana. Stiamo lavorando alla pre-produzione di un disco in cui ci siamo spartiti il lavoro a metà: io metto mano ai suoi brani e viceversa. Il tutto è molto stimolante per entrambi visto che abbiamo prospettive e modi di lavorare diversi. Penso sarà un bel lavoro, siamo entrambi molto soddisfatti perché dialoghiamo serenamente e produttivamente. Ho almeno altre tre o quattro idee che mi frullano per la testa: un'altra "ispirazione calviniana" con elettronica e una danzatrice, un nuovo lavoro con il sestetto (sto scrivendo, anche se sono lenta). Nel cassetto ho un trio jazz da diversi anni (chissà se prenderà mai forma…) e in fase del tutto embrionale sta brulicando un duo con Andrea Massaria».

Cosa ascolta Eloisa Manera in queste settimane?

«ABCD di Braxton/Dahlgren; ADE di Roberto Gemo; Vocione di Marta Raviglia e Tony Cattano, il disco Double Cut (qui l'intervista; Arvo Pärt, Complete Works for Violin and Piano & Piano Solo; alcune Sonate per violino e pianoforte e le 5 melodie di Prokofiev; Zach Broch, The Magic Number; il disco di Danilo Gallo Dark Dry Tears; il Miles Davis di Tutu; Gil Evans & Ten; Ambienti di Giovanni Di Giandomenico; Ou di Bob Meanza e Filipe Dias De…».

Il sogno nel cassetto?

«Poter veder realizzato a pieno il progetto originale delle Città e poter continuare a vivere di musica. Sembra una banalità, ma è sempre più difficile e quindi riuscire a continuare su questa strada diventa un'utopia alla quale quotidianamente cerco di dare nutrimento con gesti concreti perché questo cammino possa trovare una collocazione nella realtà della mia vita e della società. Sogno di poter realizzare i miei desideri musicali (che come si è potuto intuire sono diversi) e che il pubblico dell'arte non si estingua del tutto, anzi spero possa crescere».

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