A Villa Medici “Jephte”, capolavoro di Carissimi
Si avviano alla conclusione le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte di Carissimi
Nel 2024 ricorrono i trecentocinquanta anni dalla morte di Giacomo Carissimi. Personalmente non sono un fanatico dei festeggiamenti di queste ricorrenze, anzi li trovo paradossali nel caso di compositori già eseguiti sempre ed ovunque, però in alcuni casi sono o potrebbero essere l’occasione per conoscere meglio compositori di fondamentale importanza nella storia della musica, ma raramente eseguiti, come appunto Carissimi. A poche settimane dalla fine dell’anno, il bilancio di quest’anniversario è positivo a metà: a Roma, dove Carissimi svolse la quasi totalità della sua attività di compositore, gli sono stati dedicati vari concerti, non però dalle principali istituzioni musicali ma da meritorie associazioni più piccole, di cui abbiamo già dato parzialmente conto. Ma al di fuori di Roma – e della piccola Marino, che diede i natali a Carissimi – il bilancio è piuttosto povero.
Ora “Concerti nel Parco” – in collaborazione con Cima Music Art educazione e nell’ambito del progetto “I Borghese e la Musica” promosso dalla Galleria Borghese – ha dedicato a Carissimi un bellissimo concerto ospitato nel salone di Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia. Ad aprire il programma erano due brani poco noti. Il primo era il mottetto a sei voci Veni Sponsa Chirsti, che guarda all’ormai lontano esempio di Palestrina, il cui altissimo magistero era ancora un modello per la musica sacra romana (ma la presenza del basso continuo è l’indizio che i tempi stavano cambiando). Il Coro Musicanova diretto da Fabrizio Barchi si è immerso con qualche timidezza nella ricca polifonia di questo brano, anche perché l’alto numero di coristi non era certamente l’ideale per una musica alquanto complessa, sicuramente pensata per un piccolo coro, probabilmente a parti reali. Seguiva il salmo Dixit Dominus, a otto voci in due cori, come quelli sullo stesso testo prima di Monteverdi e poi di Vivaldi: qui la polifonia si dirada e il discorso musicale si basa principalmente sull’alternanza e la contrapposizione dei due cori, che a tratti procedono omoritmicamente, e il Coro Musicanova si è dimostrato più a suo agio e più sicuro.
Questi due brani erano un generoso e pregevolissimo antipasto prima del pezzo forte della serata ovvero l’Historia sacra (spesso definito sbrigativamente oratorio) Jephte, considerato il capolavoro assoluto di Carissimi. L’approccio di Carissimi a questo episodio biblico è devoto ma il suo istinto di musicista lo spinge a concentrarsi sugli aspetti drammatici di questa vicenda, che oggi - e probabilmente anche allora - suscita più di una domanda. Una persona del ventunesimo secolo, laica o credente che sia, non può non restare perplessa leggendo che Jephte invoca dio non come un ente supremo ma come un alleato imbattibile nella lotta contro i nemici di Israele, offrendogli in cambio come vittima sacrificale la prima persona che incontrerà nel suo ritorno a casa. E il dio d’Israele accetta questo scambio! Tutto filerebbe liscio, se la prima persona incontrata da Jephte non fosse sua figlia: è proprio quest’imprevedibile coincidenza (s)fortunata a creare la situazione patetica e dolente da cui hanno origine dieci minuti tra i più straordinari della storia della musica. Prima il congedo di Jephte (Furio Zanasi, insuperabile) poi il sublime quadro suddiviso in tre episodi strettamente concatenati (che iniziano tutti tre col verbo “plorate”) intonati i primi due dalla figlia di Jephte (bravissima Sonia Frigato) con il coro in eco e il terzo dal coro delle sue compagne (qui il Coro Musicanova è stato veramente ottimo). Un elogio spetta anche all’Historicus, affidato da Carissimi a tre voci femminili, che questa volta erano Serena Marino, Francesca Romana Giubilei e Luliia Petrochenko. Indubbiamente ha avuto un ruolo fondamentale in questa splendida esecuzione l’attenta concertazione di Riccardo Martinini, che era anche al violoncello per la realizzazione del basso continuo insieme all’organo di Guido Morini, all’arpa di Henriette Urban e al contrabasso di Marco Contessi.
Nella sala di Villa Medici - che non è molto ampia - non era rimasto un posto libero e gli applausi sono risuonati intensi e calorosi.
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