Un tesoro di pianista
Kris Davis in piano solo al Centro d'Arte di Padova si dimostra improvvisatrice di livello
Di pianisti in giro ce n'è a secchiate. Bravi, bravissimi, fantastici, fenomenali persino. Ma di improvvisatori con un'idea precisa e profonda di cosa suonare (e soprattutto non suonare), con una visione lucida e rigorosa, non è che se ne incontrino poi molti. Come riconoscerli? Facile: piano solo e non si sbaglia. Legno, corde, tasti e mani: l'inconfutabile esame del DNA, la prova ultima e definitiva. Chi ha cuore e cervello incanta, chi ha poco del primo e ancora meno del secondo (o viceversa) rimedia sbuffi e sbadigli. Ammessa di diritto al gruppetto dei promossi la canadese – anche se newyorchese ormai a tutti gli effetti – Kris Davis. Che di indizi e tracce della propria significativa presenza ne aveva già disseminati a iosa (in proprio e nei dischi altrui, come strumentista e come arrangiatore), ma che all'ombra dei Giganti della Sala del Liviano di Padova, ospite del Centro d'Arte, ha confermato di avere lo spessore e la caratura del jazzista di prima fascia. Saltellando con grazia da una labirintica rilettura di “Round Trip” di Ornette Coleman, costruita attorno all'imprevisto deflagrare di un temporale, con tanto di fulmini e tuoni assordanti, a una deliziosa rivisitazione della monkiana “Eronel”, da un nervoso inchino a John Zorn a uno stupefacente saggio di efficacia e senso della misura al piano preparato (forse il punto più alto dell'esibizione). Senza eccessi, senza strafare. Con semplicità ed eleganza anche nei passaggi più rarefatti e disarticolati (il secondo e ultimo bis, totalmente improvvisato), giocando di sponda con ostinati e progressioni, scomponendo e ricomponendo gli intrecci e le tessiture, martellando a due mani nell'unico momento sopra le righe per intensità e aggressività dell'intero programma. Un tesoro di concerto; un tesoro di pianista.
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