Suoni di gioia, liberà e resistenza a Bergamo Jazz 2025
Programma variegato e tanto pubblico per la 46a edizione del festival, la seconda diretta da Joe Lovano

Se “Sounds of Joy” era il motto scelto da Joe Lovano per questa sua seconda annata da direttore artistico di Bergamo Jazz, il fitto e articolato cartellone che ha riempito di note e di suoni nei giorni scorsi diversi luoghi della città orobica ci ha raccontato anche di tanta liberà creativa e di resistenza delle idee oltre che dell’espressione artistica.
Caratteri, questi, che vanno di pari passo con la risposta del pubblico: oltre 8.500 le presenze complessive nei quattro giorni di festival; 3.544 spettatori alle tre serate al teatro Donizetti, 783 dei quali abbonati; 11 sold out su 12 eventi a pagamento; 16 le regioni italiane di origine di un pubblico accorso anche da 17 nazioni estere, pari al 18% dei presenti.
Un’edizione, quella pensata per questo 2025, che è stata aperta – solo per citare i protagonisti principali – giovedì 20 marzo al Teatro Sant’Andrea dal pianista cubano Aruán Ortiz, appuntamento seguito dal doppio set che ha visto salire sul palcoscenico del Teatro Sociale – sempre in Città Alta – prima il trio “Tributes” del pianista Antonio Faraò – per la prima volta a Bergamo Jazz affiancato dal contrabbassista Ameen Saleem e dal batterista Jeff Ballard – seguito da Lizz Wright, intensa voce afroamericana qui presente in esclusiva italiana.
Venerdì 21 marzo, tra gli altri appuntamenti, l’Auditorium di Piazza della Libertà ha ospitato il british jazz de La Via del Ferro, mentre il Teatro Donizetti ha accolto sul suo palcoscenico il Lux Quartet, guidato dalla pianista Myra Melford e dalla batterista Allison Miller, seguito dal quartetto The Legacy of Wayne Shorter, con il pianista Danilo Pérez, il contrabbassista John Patitucci, il batterista Brian Blade e il sassofonista Ravi Coltrane.

Sabato 22 marzo, dopo il duo ospitato all’Accademia Carrara composto dalla fisarmonicista Sara Calvanelli e dalla violinista Virginia Sutera e seguito del progetto del pianista inglese Alexander Hawkins – con la sassofonista Camila Nebbia, il chitarrista Giacomo Zanus, il contrabbassista Ferdinando Romano e la batterista Francesca Remigi all’Auditorium di Piazza della Libertà – siamo finalmente arrivati a Bergamo giusto in tempo per seguire il programma serale proposto al Teatro Donizetti. Ad aprire le danze abbiamo trovato un Enrico Rava in ottima forma, qui nelle vesti di padre nobile in una riproposizione del disco realizzato con il quintetto “Fearless Five”– vincitore in diverse categorie del Top Jazz 2024 del mensile Musica Jazz – maestro generoso intento a lasciare largo spazio ai suoi allievi, tra i virtuosistici esercizi di stile del trombonista Matteo Paggi e della batterista Evita Polidoro e i più misurati interventi del chitarrista Francesco Diodati e del contrabbassista Francesco Ponticelli. La prospettiva diciamo così “accademica” è stata poi consolidata nella seconda parte del concerto, quando a salire in cattedra sono stati i The Cookers, sette veterani con il jazz più classico letteralmente nel sangue – vale a dire i trombettisti Eddie Henderson e David Weiss, i sassofonisti Azar Lawrence e Donald Harrison, il pianista George Cables, il contrabbassista Cecil McBee e il batterista Billy Hart – che ci hanno restituito solidi esempi di un compendio stilistico che affonda le sue radici tra big band e be-bop ed è alimentato da innesti e rimandi i più variegati.

Domenica 23 marzo il programma della piovosa mattinata bergamasca è stato avviato in un gremito Teatro Sant’Andrea grazie al dialogo tra il contrabbassista inglese Barry Guy e la pianista catalana Jordina Millà, vale a dire due musicisti di generazioni differenti e animati da diverse sensibilità che hanno trovato una significativa sintesi nell’album Live In Munich pubblicato lo scorso anno dall’etichetta ECM di Manfred Eicher. Un dialogo, il loro, ricco di suggestioni espressive, distribuite inizialmente attraverso una lunga prima sessione tutta costruita attraverso un confronto sonoro intessuto sulla scia di tratteggi timbrici intrecciati, per poi passare a una dimensione musicale più materica, dove il pianoforte preparato di Jordina Millà ampliava orizzonti timbrici attraversati con gusto pregnante dalle corde del contrabbasso di Barry Guy, ora accarezzate dall’archetto per generare lunge note profonde e distese, ora sollecitati da un pizzicato a tratti morbido e in altri momenti più secco e nervoso. Un dialogo suggellato da un crescendo anche giocoso, che ha visto il contrabbassista “suonare” con un pennello sia il pianoforte della pianista sia il suo strumento.

Uno scambio sviluppato su quella libertà di linguaggio musicale e, in generale, di espressione artistica che abbiamo ritrovato anche nell’altro dialogo a due che ha segnato quest’ultima giornata di festival, vale a dire quello offerto dal duo formato da Tania Giannouli e Nik Bärtsch, due pianisti di differenti estrazioni ed esperienze che hanno intrecciato i suoni dei loro strumenti sul palcoscenico della bella Sala Piatti. Ad accomunare i due artisti un approccio al pianoforte quale strumento a tuttotondo, fonte di suoni e timbri diversi ora generati dai tasti sollecitati con una sensibilità di tocco estremamente raffinata ora scaturiti dalle corde pizzicate, accarezzate o percosse, ottenendo una materia sonora risuonante di fascinosi rimandi. Un’atmosfera animata da un dialogo improvvisativo di originale matrice jazzistica capace di miscelare generi e stili – anche evocando certe nuance espressioniste – alimentando così una complicità musicale elegante e misurata, tratteggiata con un’affinità nutrita ora dagli accenti distillati e personali della pianista greca ora dalle incursioni sempre equilibrate dell’artista elvetico.

Dopo l’appuntamento pomeridiano al Teatro Sociale, sempre in Città Alta, con il mix tra improvvisazione e virtuosismo strumentale intriso del rock più creativo degli Stick Men guidati da Tony Levin, siamo ritornati al teatro Donizetti per la serata finale di questa edizione 2025 di Bergamo Jazz, che ha messo a confronto ancora una volta sullo stesso palcoscenico mondi diversi dell’universo jazzistico internazionale come quelli incarnati dalla chitarra di Marc Ribot e dalla voce di Dianne Reeves.

Impegnato ad aprire la serata con il suo quartetto Hurry Red Telephone – e animato da Ava Mendoza alla chitarra, Sebastian Steinberg al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria – Ribot ha proposto un’ora abbondante di musica tesa e affilata, densa di pathos timbrico obliquo e a tratti distorto, attraversato da un’urgenza espressiva diretta e trascinante. Brano dopo brano i dialoghi serrati tra gli strumenti costruivano lunghe campate espressive attraverso scambi timbrici nei quali la chitarra ora grumosa ora tagliente dello stesso artista statunitense si intrecciava con quella più asciutta ma altrettanto pregnante della Mendoza, il tutto sostenuto dall’incedere flessuoso e granitico al tempo stesso dei binari timbrico-ritmici scanditi da contrabbasso e batteria. Una materia musicale nella quale un virtuosismo strumentale a tratti estremo si scioglieva in una necessità espressiva limpida e schietta. Caratteri che sono confluiti anche simbolicamente nel brano fuori programma che Ribot ha voluto concedere al pubblico che riempiva il Donizetti, vale a dire la versione in inglese di “Bella ciao”. Quella “Goodbye Beautiful” già plasmata dal chitarrista con Tom Waits nel 2018 e qui reinterpretata attraverso una lettura ancora più scarna, spogliata da qualsiasi velatura retorica, con il testo spezzato, ritorto e urlato, lanciato contro ogni forma di fascismo, a scuotere le coscienze chiamate ancora una volta a “resistere, resistere, resistere”.

Un pathos stemperato nella seconda parte della serata dalla classe trascinante di Dianne Reeves che ha letteralmente rapito il pubblico presente. Un concerto attraversato da una contagiosa vitalità, un carattere sviluppato anche grazie all’alternanza tra le avvincenti incursioni della sua affiatata band e gli eleganti dialoghi in duo tra l’affasciante voce della stessa cantante originaria di Detroit e la chitarra del brasiliano Romero Lubambo.

Tra le iniziative collaterali di questa edizione di Bergamo Jazz 2025, ci piace segnalare la mostra “Filippo Siebaneck: un uomo di cultura per Bergamo”, allestita in ricordo nel 25° anniversario della scomparsa di questa importante figura di uomo di cultura che ha segnato la vita delle istituzioni culturali della città di Bergamo e non solo. Una iniziativa promossa dalla Fondazione Teatro Donizetti e Bergamo Jazz insieme al Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo e agli Amici dell’Accademia Carrara che, grazie all’esposizione di manifesti, documenti e di una selezione di fotografie che ritraggono lo stesso Siebaneck assieme a grandi artisti, ha ripercorso la storia culturale della città.

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