Il pianoforte aperto e plurale di Shai Maestro
Il pianista israeliano protagonista di un intenso concerto in solo al Piacenza Jazz Fest

Adagiato nella penombra del palcoscenico, incastonato tra il pubblico seduto di fronte e il grande organo alle spalle che fa da imponente sfondo al salone del Conservatorio “Giuseppe Nicolini” di Piacenza, il pianoforte di Shai Maestro è stato protagonista di un intenso concerto ospitato nel ricco cartellone del XXII Piacenza Jazz Fest.
Una dimensione, quella solistica, che ha permesso all’artista israeliano di indagare in profondità le pieghe espressive di uno strumento che appare ora amico discreto e delicato confidente, ora solido compagno di perlustrazioni più ardite, in un percorso interpretativo che ieri sera è parso dispiegarsi con crescente intensità.

Un tracciato, quello proposto in questa occasione, che ha coperto idealmente l’intero arco di una carriera che ha visto Shai Maestro – classe 1987 – affacciarsi sul panorama musicale nei primi anni Dieci del Duemila, in particolare, oltre alle collaborazioni con Avishai Cohen e Mark Giuliana, grazie a un trio con il quale ha pubblicato il primo album – titolato appunto Shai Maestro Trio – nel 2012 (con Jorge Roeder al contrabbasso e Ziv Ravitz alla batteria), per poi approdare all’etichetta ECM di Manfred Eicher pubblicando rispettivamente i dischi The Dream Thief nel 2018 – sempre in trio – e Human nel 2021, questa volta con un quartetto che comprende, oltre al pianoforte dello stesso Maestro, la tromba di Philip Dizack, il contrabbasso di Jorge Roeder e la batteria di Ofri Nehemya, questi ultimi presenti anche nell’incisione precedente.
Un arco temporale e creativo variegato che il pianista ha saputo qui ripercorrere rievocando atmosfere differenti, animate da frammenti melodico-armonici ora gemmati da misurati incipit tratteggiati attraverso una riflessiva ed essenziale alternanza tra note sparute e pause, ora plasmati grazie all’incedere timbrico cadenzato di una mano sinistra solidamente ancorata a figure ritmiche reiterate, sulle quali si innestavano le brillanti escursioni della mano destra, attraversate da sprazzi virtuosistici delineati con gusto comunque sempre misurato.

Un percorso improvvisativo che ha progressivamente animato la pagina bianca iniziale di colori espressivi via via sempre più intensi e coinvolgenti, passando dai primi momenti restituiti attraverso un carattere più asciutto ed essenziale alle composizioni successive, più aperte e articolate, più vivide e variegate. Così brani come “Human” – tratto dall’omonimo album di qualche anno fa – o “Angelo” – reminiscenza del primo disco del 2012 – sono apparsi come ideali confini di un peregrinare stilistico che ha saputo miscelare profumi sudamericani e rimandi beatlesiani, passi obliqui dal vago sapore valse musette a geometrie armonico-pianistiche in bilico tra Keith Jarrett e Bill Evans, il tutto suggellato da una coinvolgente – e un poco sorniona – rilettura del celebre tema di “Moon River”.
Un concerto via via sempre più intenso, quindi, animato anche da uno scambio diretto e coinvolto con il pubblico presente in quale, tra gli applausi convinti e reiterati, ha chiamato il pianista più volte a ripresentarsi sul palco a fine serata.
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