Un pasticcio pucciniano per Turandot

A Basilea Christoph Loy firma l’allestimento dell’opera di Giacomo Puccini con aggiunte da altre sue composizioni

Turandot (foto Ingo Höhn)
Turandot (foto Ingo Höhn)
Recensione
classica
Basel, Theater Basel
Turandot
02 Marzo 2025 - 01 Giugno 2025

Non è il solito dramma lirico in tre atti la Turandot che va in scena al Theater Basel. Il regista Christof Loy aggira il classico problema di come far finire l’incompiuta pucciniana e lo fa a modo suo, senza scomodare Alfano o Berio ma restando all’interno del catalogo del compositore. E così come preludio sceglie il giovanile Crisantemi nella versione orchestrale e alla morte di Liù fa seguire il quarto atto di Manon Lescaut. Tralasciando il presunto reato di lesa puccinità, il punto è: funziona? Forse. Ma resta l’impressione che si tratti di una scorciatoia furbesca per aggirare che più per superare il grande ostacolo di come dare plausibilità allo scioglimento repentino di quel ghiacciaio umano che è il personaggio di Turandot. E, nel dubbio, meglio far morire tutti (va detto che il lieto fine non è una variante contemplata nel teatro di Loy).

Turandot (foto  Ingo Höhn)
Turandot (foto Ingo Höhn)

Con un approccio drammaturgicamente creativo, com’è nelle corde del regista, la vicenda della principessa di gelo viene introdotta da un preambolo (sulle note appunto di Crisantemi) nel quale una bambina manifesta già una propensione alla crudeltà, che sfoga decapitando una bambola mentre è seduta a tavola con un gruppo fatto esclusivamente di maschi adulti: il padre, che la lascia fare, e tre personaggi dall’aria ambigua e complice. La scena è un grande salone altoborghese con tappezzeria e mobilio “chinoiserie” (la scena è di Herbert Murauer come i variegati costumi). La scena si ripete ma stavolta con la bambina diventata adulta e un giovane uomo che lei prima attira e poi respinge per abbandonarlo infine alle violenze dei tre uomini e infine alle “cure” di un inquietante bambino armato di ascia che ne strazierà il corpo. Che si tratti di una vendetta per l’oltraggiata principessa Lo-u-Ling o, più verosimilmente, di un intimo turbamento causato da un racconto efferato che ha marca la sua fantasia infantile, non interessa poi molto. Ciò che invece conta è il ripetersi di un gioco crudele o di un rito di morte, del quale quella bambina mai cresciuta impone le regole davanti a un pubblico compiacente che si traveste in abiti cinesi per assecondare il suo perverso capriccio.

Significativamente, Calaf con il padre Timur e Liù, sono del tutto estranei al mondo di Turandot e dunque abitano uno spazio neutro, che sovrasta l’universo familiare della principessa. Quello spazio sospeso invaderà e cancellerà del tutto lo spazio di Turandot quando Calaf romperà il suo giocattolo sanguinario e, soprattutto, quando lei sarà costretta a confrontarsi con qualcosa diverso da sé davanti al suicidio di Liù. Il “quarto atto” di questa Turandot (quello cioè di Manon Lescaut) risolve senza davvero risolvere poiché Turandot/Manon muore senza conoscere quell’amore, che invece la infiamma e fa sciogliere nel finale che doveva essere e che invece non si realizzò. Questa Turandot finisce nello spazio bianchissimo del “mondo di sopra” di Calaf che annulla quello delle cineserie posticce di Turandot e con esse l’identità e la stessa esistenza della donna rimasta bambina, con la sua morte fra la più consueta coreografia di corpi degli altri protagonisti della storia che poi è la firma più riconoscibile (ancorché di maniera) del Loy regista.

Turandot (foto  Ingo Höhn)
Turandot (foto Ingo Höhn)

Spettacolo di grande eleganza formale ma con grandi sfide per la macchina musicale, di suo già complessa: gli interpreti vocali sono collocati su piani diversi in palcoscenico, il coro in sala nel primo atto quando o dietro le quinte come le voci bianche. È davvero un’impresa per José Miguel Pérez-Sierra tenere tutti insieme e inevitabilmente qualche deragliamento si coglie. Il risultato, comunque, è più che buono in primo luogo grazie alla qualità musicale della Sinfonieorchester Basel e alla compattezza del Coro del Theater Basel, che si impone soprattutto quando il coro canta sul palcoscenico. Non meno riuscita è la prova degli interpreti vocali, tutti perfettamente e credibilmente calati nel peculiare disegno registico di questa Turandot. È sicuramente il caso di Rodrigo Porras Garulo, un Calaf finalmente cantante e di grande tenuta nonostante lo sforzo supplementare nel finale, e di Miren Urbieta-Vega, una Turandot muscolare ma anche ricca di sfumature. Un po’ sacrificati nell’alto della scena sono la Liù di Mané Galoyan e il Timur di Sam Carl, entrambi comunque con buone qualità vocali. Molto presenti, al contrario, sono David Oller (Ping), Ronan Caillet (Pang) e Lucas van Lierop (Pong) che, nonostante qualche problema di sincronia talvolta, reggono benissimo il gioco scenico con un’alchimia quasi impossibile di violenza efferata e simpatia spudorata. Accanto a loro Rolf Romei disegna un Altoum che sembra parente del don Vito Corleone di Marlon Brando e Andrew Murphy è un mandarino che sembra trasmettere disagio per la mascherata imposta dal gioco perverso di Turandot. Accanto a loro, va anche elogiata la squadra di mimi (Giacomo Altovino, Giuliana Sollami, Marie Da Silva e Giuseppe Bencivenga) che vestono i panni dell’impeccabile servitù di casa Altoum e lo sventurato principe di Persia di Elio Staub, ai quali la cura attoriale di Loy (con la collaborazione per i movimenti del coreografo Pascu Ortí) non è secondaria rispetto a quella dei protagonisti. 

Pochissimi i posti vuoti alla prima. Applausi calorosi e ovazioni per tutti.

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