Un manicomio per Hamlet
Contestata la regia di Warlikowski, ma bravissimi la Oropesa e Tézier all' Opéra Bastille di Parigi
Ambientare l’Hamlet in un ospedale psichiatrico appare banale, da un regista come Krzysztof Warlikowski ci si aspetta qualcosa di più, e la delusione aumenta per molte scelte decisamente poco chiare, dal sapore di già visto e che apportano poco al dramma, dalla regina madre in sedia a rotelle al continuo ricorrere alla sigaretta nei momenti di nervosismo ad Hamlet che gioca con una macchinina rossa telecomandata, ed alla fine della premiére il regista e la sua equipe sono stati infatti contestati da una parte della sala. Ma evidentemente ci sono anche delle buone idee, dai riferimenti cosmici del primo atto alla parodia del balletto, indispensabile in un Grand Opéra, qui interpretato con tanta ironia dal coro, alla morte di Ophélie in vasca da bagno che slitta sino a scomparire in fondo della scena. Sopratutto ci sono due protagonisti straordinari: Ludovic Tézier come Hamlet e Lisette Oropesa nel ruolo di Ophélie (che sarà sostituita nelle recite di aprile dal giovane soprano di coloratura americano Brenda Rae). L’opera di Ambroise Thomas, oggi ricordato sopratutto per il suo precedente lavoro Mignon, non veniva data all’Opéra national de Paris dal 1938, ma ultimamente c’è un rinnovato interesse verso l’autore che ha portato anche ad un’altra precedente nuova produzione di Hamlet all’Opéra Comique, pure in ambientazione contemporanea, firmata Cyrille Teste recentemente ripresa dall’Opera di Liegi. La musica di Thomas si sta dimostrando meno convenzionale di come molti l’hanno frettolosamente giudicata in passato, giudizio comprensibile soprattutto a confronto delle rivoluzioni musicali portate avanti di li a poco da altri compositori, ma una direzione come quella proposta all’Opéra Bastille dal giovane maestro Pierre Dumoussaud ne ha saputo restituire tutta la piacevolezza e raffinatezza, con melodie nitide ben caratterizzanti i diversi personaggi e le differenti situazioni, una lettura che ha fatto venire un po’ in mente anche Verdi, quello appunto dei Grand Opéra romantico, a cominciare da certe pagine del Don Carlos. E per il celebre assolo di sassofono, il primo in un’opera, funziona la scelta di averlo lasciato improvvisare in stile libero lasciando perdere le semplici pagine scritte da Thomas per lo strumento.
Dunque musicalmente e vocalmente soddisfacente, la parte teatrale invece non entusiasma ponendoci di fronte una grande gabbia con all’interno la brandina di un Amleto ormai vecchio e in misere condizioni che condivide la sorte, e infine pure il letto, con la regina madre Gertrude, interpretata dal bravo mezzosoprano Ève-Maud Hubeaux, presentata inizialmente come una vecchia immobile davanti alla tv accesa che però, quando si torna indietro negli anni, è poco adatta al ruolo come madre di Hamlet. Freud è chiaramente evocato con i suoi miti, a cominciare da quello di Edipo. L’opera inizia in modo poco comprensibile, una proiezione avverte poi che quello che si vedrà d’ora in avanti è successo venti anni prima. Un grande specchio/finestra consente di vedere quello che accade in un’altra sala della struttura con i personaggi che entrano ed escono, alcuni passano il tempo giocando a carte. Le scene ed i costumi, entrambi bruttini, sono di Małgorzata Szczęśniak. Non si capisce bene quello che succede al cattivo Claudius, il nuovo re che ha preso il posto del fratello ucciso sia sul trono che come marito della regina, ma anche il questo caso l’interpretazione vocale è di livello grazie alla bravura del basso Jean Teitgen. La scelta di presentare lo spettro del re come un candido, patetico, Pierrot lunare, interpretato dal basso inglese Clive Bayley, aumenta l’impressione di assistere ad un vecchio spettacolo oramai fuori moda. E lo stesso costume triste, ma in nero, alla fine lo indosserà anche Hamlet. Ma presto, come detto, la grande interpretazione di Tézier, vero, straziante come Hamlet, che arriva dritto al cuore, e il virtuosismo della Oropesa, che regala una magnifica discesa nella follia con pianissimo e acuti perfetti, fanno dimenticare il poco apprezzabile contesto ed il tentativo non riuscito di sondare visualmente quel che è passato nella testa dei protagonisti venti anni prima. Non aiutano molto a tale scopo nemmeno i video, finestre della memoria, di Denis Guéguin. La fine è esattamente la riproposizione della scena iniziale, il cerchio si chiude, si comprende perché il coro, ben preparato da Alessandro Di Stefano, era vestito all’inizio come ad un funerale, era/è il funerale di Ophélie.
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