Un cuore e una chitarra
I Beautiful Dreamers di Bill Frisell ospiti del Piacenza Jazz Fest
Recensione
jazz
Incrociare i passi di Bill Frisell è un po' come tornare a casa. Il jazz corre, si sporca le mani. Azzarda, rischia. È nelle cose: lo ha sempre fatto e sempre lo farà, da Buddy Bolden in poi. Ma il chitarrista di Baltimora, fermo al centro della propria musica, è la dimostrazione di quanto contino i porti sicuri, le certezze. Perfettamente arrivato, perfettamente riconoscibile. Sospeso in una dimensione tutta sua, al di là e al di sopra degli accidenti che riguardano i poveri mortali, impelagati in quisquilie e necessità. C'è chi pensa che abbia voltato le spalle all'avventura, appendendo il cappello da esploratore al chiodo e infilandosi un paio di comode pantofole. Miope visione. Bill Frisell ha solamente varcato la soglia della classicità. Ecco perché incrociare i suoi passi è un po' come tornare a casa. Le chiavi nella serratura, i cardini che cigolano, le scale in legno, i mobili in mezzo ai quali sei cresciuto: tutto a posto, tutto in ordine. Una struggente sensazione si allarga in mezzo al petto. Non c'è scampo: passa Bill Frisell e il cuore batte. Di recente è passato da Piacenza con i suoi Beautiful Dreamers. Sul palco una Telecaster nera, la viola di Eyvind Kang e la batteria di Rudy Royston (compagni fedeli e sempre più empatici). In scaletta le solite cose: l'implacabile “Baba Drame”, un assaggio di Lennon - la commovente “In My Life” -, l'onnipresente “Subconscious-Lee” piazzata in chiusura. Tutto a posto, tutto in ordine: gli arpeggi languidi, l'inconfondibile gusto per i colori tenui, un paio di accelerate in memoria dei tempi che furono, l'uso magistrale dei loop, i timidi sorrisi dispensati ai compagni di strada, gli occhiali tondi, la viola di Kang a danzare leggiadra, la batteria di Royston tra slanci e preziosismi. Casa dolce casa.
Interpreti: Bill Frisell (chitarra elettrica); Eyvind Kang (viola); Rudy Royston (batteria).
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