Un concerto in memoria di Iannis Xenakis al Romaeuropa Festival
Tre suoi pezzi per ensemble strumentale nell’ottima esecuzione del PMCE
Romaeuropa Festival ha dedicato un concerto a Iannis Xenakis a cent’anni dalla nascita, un anniversario passato quasi inosservato in Italia. Xenakis è stato tra i principali esponenti dell’avanguardia musicale della seconda metà del ventesimo secolo, dunque fece parte di quel gruppetto di compositori che dalla metà degli anni Cinquanta fino al 1980 circa avrebbero esercitato un predominio o addirittura una dittatura sulla vita musicale, mentre In realtà venivano eseguiti quasi esclusivamente in alcuni festival specializzati e solo in una piccola porzione dell’Europa, ma non certamente nell’Unione Sovietica e nei paesi satelliti, nella Spagna franchista e nemmeno nella sua Grecia. Per non parlare del resto del mondo. Insomma, la musica di Xenakis non ebbe una vita facile, come non fu facile la vita stessa di Xenakis, che sopravvisse miracolosamente a una ferita infertagli dai filofascisti greci, ma rimase per sempre sfigurato, e fu condannato a morte dal governo “democratico” greco insediato e sostenuto da Usa e Regno Unito: si salvò solo perché si rifugiò in Francia, dove visse a lungo come clandestino. Soltanto nel 1974 poté tornare nel proprio paese senza timore di essere perseguitato.
Xenakis era architetto (durante l’esilio in Francia lavorò nello studio di Le Corbusier) e travasò nella musica questa sua formazione, basando la sua musica su concetti architettonici e calcoli matematici. Sviluppò un sistema per la realizzazione sonora di forme geometriche e approdò infine a scrivere composizioni che consistevano in formule matematiche tradotte in musica, basandosi precipuamente sul calcolo stocastico, che studia i fenomeni casuali dipendenti dal tempo e, in quanto tale, è un'estensione della teoria della probabilità. Ma i calcoli matematici non si trasformano automaticamente in musica ed è ineludibile l’intervento dell’autore per avviare, controllare e indirizzare il risultato, con un conseguente margine di arbitrarietà. Lo dimostra la grande distanza tra la musica scritta da Xenakis prima e dopo la metà degli anni Ottanta, circa: prima è complessa e violenta, dopo relativamente semplice e delicata. Pur basandosi sempre su calcoli matematici. Xenakis può dunque essere ''delicatamente poetico e/o violentemente brutale'', secondo la definizione di Olivier Messiaen.
Nel concerto di cui qui si riferisce erano in programma tre lavori scritti tra il 1975 e il 1984, per gruppi di esecutori simili: da un massimo di quattordici strumenti (cinque archi, quattro legni, tre ottoni, pianoforte e percussioni) a un minimo di undici. Il primo pezzo era Phlegra, che è un esempio ideale di come Xenakis costruiva un pezzo. Egli stesso lo spiega, seppure molto sinteticamente, nella sua introduzione, dove dice che il brano è basato sulla costruzione di textures e poi sulla loro organizzazione ad un livello superiore. Una prima texture è l’arborescenza melodica affidata ai fiati, un’altra è il moto browniano (ovvero il moto caotico delle microparticelle sospese in una sostanza liquida o gassosa) affidato agli archi, un’altra ancora sono le note ripetute su determinati schemi ritmici: così si creano blocchi sonori fortemente contrastanti, eseguiti sia simultaneamente sia in successione. Inoltre le note di quella che si potrebbe definire melodia devono essere sempre di durata e di intonazione non precise, in pratica una serie quasi ininterrotta di glissando, però il vibrato è assolutamente vietato: ancora un altro contrasto, questa volta tra suoni fluttuanti e fissi. Il titolo - poiché Phlegra è il mitico luogo dove i nuovi dei dell’Olimpo si scontarono con i titani e li sconfissero - lascia ipotizzare che Xenakis l’abbia scelto proprio per i momenti violentemente brutali (riprendiamo le parole di Messiaen) e gli scontri caotici che si ascoltano in questo pezzo, in cui allo stesso tempo tutto appare assolutamente calcolato, oggettivo, impassibile.
Seguiva Palimpsest, che Inizia con un lungo e complesso ‘solo’ del pianoforte, basato su un ritmo costante e su durate costanti (semicrome e biscrome). Questo primo strato viene come raschiato via (da qui il titolo) ma per un po’continua a tralucere sotto la musica che gli viene sovrapposta. Nella parte centrale il pianoforte è sostituito dalle percussioni, tanto che per una buona metà questo pezzo si configura come un concerto per percussioni e piccola orchestra. Questa musica dalla struttura complessa e tuttavia chiara risulta anche molto trascinante, grazie alla parte virtuosistica e ai ritmi esuberanti delle percussioni, che infatti guadagnano all’interprete calorosi applausi.
Nel terzo e ultimo pezzo Thallein (in greco significa germogliare) si susseguono diverse sezioni, che germogliano da semplici idee musicali (come trilli, glissando, note ripetute, ritmi ripetuti) che si sovrappongono, s’incastrano l’una nell’altra, danno vita a qualcosa di nuovo: sembra veramente di stare in un giardino o piuttosto in un bosco sonoro ed osservare il prodigio di efflorescenze musicali che germogliano dalle gemme dei rami.
Esemplari le esecuzioni del PMCE-Parco della Musica Contemporanea Ensemble, diretto impeccabilmente da Tonino Battista: Roma ha la fortuna di avere quest’ottimo gruppo ma non lo sfrutta abbastanza. È stata una bella sorpresa vedere il Teatro Studio Borgna (non molto grande, a dire il vero) pieno di pubblico, che non ha risparmiato gli applausi.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln