Tre intensi Stabat Mater per un magico Savall
Inaugurato superbamente il 42° Bologna Festival all’insegna del Barocco quaresimale, con gli Stabat Mater di Marc-Antoine Charpentier, Domenico Scarlatti e Giovanni Battista Pergolesi
Il Bologna Festival inaugura la 42ª edizione sotto i migliori auspici, avviando la principale delle sue numerose rassegne che lo caratterizzano: quella dedicata ai “Grandi interpreti”. La tradizione quasi sempre confermata vuole che il primo concerto sia dedicato al repertorio sinfonico-vocale, con la presentazione di qualche partitura musicalmente sontuosa. La coincidenza con l’inizio della Settimana Santa ha tuttavia portato la scelta di quest’anno sulla strada della più intima riflessione, chiedendo a Jordi Savall e ai suoi fedelissimi cantori e strumentisti di recuperare un programma già più volte presentato all’estero, ma ancora mai in Italia: quello incentrato su tre intonazioni musicali dello Stabat Mater tanto vicine fra loro per gestazione, quanto lontanissime per esito artistico.
Con anteprima il giorno precedente al Teatro Valli di Reggio Emilia, nella Domenica delle Palme ci è stata dunque offerta la possibilità di immergerci in sonorità che non è esagerato definire magiche: magiche nei timbri di voci che davvero evocavano mitici cori angelici, magiche nei suoni morbidissimi di strumenti cosiddetti antichi, ma che nella loro perfezione esecutiva assoluta sono ormai oggi diventati parte integrante del nostro sound di contemporanei esploratori del passato.
Savall calca i palcoscenici bolognesi dal 1977, quando si presentò al Teatro Comunale con le Sonate per viola da gamba e cembalo di Bach. Fra il 1992 e il 2016 è poi tornato ben sei volte al Bologna Festival, di cui è artista fra i più assidui, mettendosi sempre al centro della serata come esecutore. In questa settima sua apparizione ha invece limitato i suoni della sua amata viola da gamba all’avvio del concerto, quasi un preludio strumentale, un tratto d’unione fra il suo glorioso passato da gambista e un presente che lo vede sempre più impegnato quale direttore, spintosi ormai fino all’Ottocento inoltrato (recente è la sua registrazione delle Sinfonie di Beethoven e imminente la tournée europea con la Missa solemnis).
Tutto ciò a sottolineare quanta esperienza ci sia ormai sotto quelle mani che modellano i suoni propri o altrui con gesti segnati da una tangibile amorevolezza. È quanto si percepiva di fronte all’esecuzione di uno Stabat Mater che diremmo minimalista, composto da Marc-Antoine Charpentier ad uso liturgico del convento femminile di Port-Royal, che ne ospitava la sorella: due semplicissime melodie, assai simili fra loro, ripetute in alternanza continua, strofa dopo strofa. Con efficace pragmatismo, Savall le ha affidate al piccolo coro maschile in palcoscenico (assimilabile a un presbiterio) e all’ancor più sparuto gruppetto femminile collocato in alto, nel braccio laterale della galleria (quasi balconata delle suore di clausura). La regolarissima antifonalità era ravvivata soltanto dal mutevole numero di voci chiamate di volta in volta a rispondersi, con un effetto di loop sonoro reso ancor più ipnotico dal timbro celestiale delle voci muliebri.
Di contrapposta complessità, seguiva lo Stabat Mater arduamente polifonico di Domenico Scarlatti, a 10 voci reali: una cattedrale sonora che parte stilisticamente dal contrappunto severo di Palestrina per lasciarsi volentieri contaminare da continui guizzi solistici che ammiccano allo stile concertante d’inizio Settecento. Ma se la regolarità, l’uniformità e – vorremo dire – l’immobilità costituivano il fascino della delicatissima trina di Charpentier, non avrebbe qui invece nociuto una più spiccata varietà nella concertazione, che caratterizzasse pur con discreta evidenza la natura delle singole campate fraseologiche, invece di limitarne l’espansione espressiva in un distaccato livellamento generale.
Con l’esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi si aveva invece l’impressione di essere di fronte a qualcosa di perfettamente compiuto, di assolutamente compiuto. Sentita negli anni decine di volte e sotto spoglie stilistiche assai diverse fra loro, quella partitura sembrava infatti aver trovato la sua più giusta dimensione sonora, grazie anche alla discretissima perfezione vocale delle due soliste Elionor Martínez e Lara Morger (uscite per l’occasione dal coro), beneficiate di un timbro ammaliante, privo di qualunque screziatura, con un perfetto equilibrio tra fissità e vibrato che pendeva più verso l’una o l’altro secondo la momentanea finalità espressiva. E ad accompagnarle un gruppo strumentale di tale morbidezza che nessuna orchestra moderna, nella sua connaturata metallicità, potrà mai eguagliare.
Salto di tre secoli per il bis, che accomunava in fine La Capella Reial de Catalunya e Le Concert des Nations uditi prima a sezioni parziali: era il momento del suggestivo mottetto Da pacem Domine di Arvo Pärt, del cui auspicio simbolico non necessita alcuna spiegazione.
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