Due diverse esecuzioni della Messa in si minore di Bach
A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln
Una congiunzione astrale, che probabilmente non si era mai verificata e chissà se e quando si verificherà un’altra volta, ha fatto sì che dopo dieci anni di assenza la Messa in si minore di Bach fosse eseguita a Roma quattro volte in tre giorni: precisamente tre volte al Parco della Musica per i concerti in abbonamento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e una volta in Santa Maria Maggiore per il Festival di Musica e Arte Sacra. Questa mancanza di coordinamento si è rivelata una preziosa occasione per ascoltare due volte a un giorno di distanza quest’immane capolavoro (tra parentesi, ho incontrato varie altre persone che avevano avuto la mia stessa idea).
Ascoltare a distanza ravvicinata - come si può fare a casa, ma dal vivo è molto diverso - due esecuzioni egualmente valide, ma diverse in molti dettagli piccoli e meno piccoli e nel tono generale, ha permesso di fare un ulteriore passo avanti nella conoscenza di questa summa dell’arte di Bach, che la compose nei suoi ultimi anni, attingendo però anche alla musica scritta nell’arco di tutta la sua vita. Le due interpretazioni erano diverse ma non antitetiche, anche perché i due direttori sono cresciuti musicalmente nello stesso ambiente: sia Reinhard Goebel, il direttore dei tre concerti ceciliani, sia Eberhard Metternich, il direttore di quello a Santa Maria Maggiore, vengono infatti da Colonia, dove Goebel nel 1973 ha fondato Musica Antiqua Köln, uno dei primi ensemble che si proponevano il ritorno alla prassi esecutiva dell’epoca e utilizzavano strumenti originali. Dal canto suo Metternich ha studiato a Colonia e da più di trentacinque anni è il direttore del coro del duomo della città renana.
L’approccio di entrambi a Bach è quello di un Kapellmeister tedesco, devoto alla sacralità dei Bach, ma Metternich è di qualche anno più giovane di Goebel e questo si traduce in una certa spregiudicatezza nell’evidenziare i rapporti di Bach con la musica italiana, da taluni considerati ancora oggi peccaminosi e inconfessabili. In alcune arie e duetti di questa Messa è evidente l’ammirazione di Bach per lo stile napoletano e per la sua melodiosità semplice e dolce, infiorata da carezzevoli gorgheggi: c’è anche una quasi citazione dello “Stabat Mater” di Pergolesi, che Bach conosceva bene, avendone fatto una trascrizione. Così come ha fatto varie trascrizioni di Vivaldi e di altri veneziani: nella Messa lo splendore delle fanfare delle tre trombe, spesso rinforzate dai timpani, rimanda indubbiamente alla musica sacra veneziana. Lo stile osservato di Palestrina e della scuola romana non costituisce invece una particolarità, perché era un modello universale. Non parliamo delle sue basi tedesche, perché è ovviamente superfluo. Il susseguirsi e spesso sovrapporsi di stili diversi non sminuisce affatto ma anzi esalta la genialità di Bach, che riassume in sé tutta la musica del suo tempo.
Metternich ha portato a Roma l’orchestra Concerto Köln e il coro del duomo di Colonia, più esattamente Vokalensemble Kölner Dom, le cui voci non sono impostate in modo operistico ma cantano in modo più naturale, esattamente come dovevano fare quelle a disposizione di Bach. Per loro è naturale affrontare le polifonie più complesse con precisione totale. Tra i quattro cantanti solisti si segnalano in particolare il giovanissimo basso - più correttamente bass-baritone -Anton Kirchhof, che ha voce chiara e morbida, non cupa e rocciosa come quella del tipico basso tedesco, e il contralto Ingeborg Danz, la cui voce delicata ci regala un Agnus Dei meraviglioso, che esprime un dolore profondo e allo stesso tempo sereno.
L’orchestra di Metternich usa due flauti e due oboi d’amore “originali”, mentre Goebel, già paladino di quel genere di strumenti, deve questa volta usare strumenti moderni, quelli dell’Orchestra di Santa Cecilia, indubbiamente più idonei all’enorme sala Santa Cecilia, al cui confronto la basilica romana pare relativamente piccola. Il confronto dà un risultato alterno: il flauto antico ha un suono più suadente e morbido del flauto moderno, mentre gli oboi d’amore antichi sono un po’ asprigni rispetto a quelli moderni, forsanche perché quest’ultimi sono suonati meravigliosamente da Fabien Thouand e Annarita Argentieri, due preziosi elementi dell’orchestra di Santa Cecilia. Nell’insieme l’orchestra romana è più grandiosa e splendida di quella ospite ma meno duttile e colorata, anche perché il maggior numero degli strumenti ad arco nasconde parzialmente le screziature timbriche degli strumenti a fiato. Similmente il coro, ottimamente preparato da Andrea Secchi, non sfugge a tratti ad una certa uniforme maestosità ma d’altra parte dà ai molti passaggi contrappuntistici nervature più possenti di quanto possa fare il coro del Duomo di Colonia. Merita di essere evidenziato un dettaglio non trascurabile, la sorprendente grande teatralità che il coro romano dà alla triplice invocazione “Kyrie” all’inizio della Messa, che John Eliot Gardiner ha definito “un atto quasi fisico”. I quattro cantanti solisti (italiano il soprano Damiana Mizzi, scozzese il mezzosoprano Catriona Morison, tedeschi il tenore Benjamin Bruns e il basso Christian Immler) sono discreti ma con qualche disomogeneità di peso vocale e di stile.
Pur con le differenze cui si è accennato, sia di Goebel sia di Metternich rivelano una profonda conoscenza un rispettoso amore per Bach e Il pubblico che affollava i loro concerti (ma qualche posto è restato vuoto) ha espresso con calore la sua ammirazione e gratitudine per il loro ottimo lavoro.
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