Satyricon ossia il funerale della civiltà
La Fondazione Haydn propone un nuovo allestimento di “Satyricon” di Bruno Maderna a Bolzano e Trento
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Tessere scomposte di un mosaico sulla fine di una civiltà. Potrebbe essere questa la definizione del Satyricon di Bruno Maderna, opera in un atto presentata all’Holland Festival per la prima volta nel 1973, stesso anno della scomparsa del compositore veneziano. Frammentato prima ancora che frammentario, come di frammenti è fatto il soggetto dal quale nasce, il Satyricon di Petronio, intellettuale aristocratico e amante del lusso nonché uomo di mondo dalle abitudini raffinate che si merita la chiamata alla corte di Nerone come “arbiter elegantiarum”. Quelli del lavoro di Maderna sono 19, pensati come numeri chiusi, senza una successione predeterminata dall’autore ma lasciata all’interprete che può proporre la sua personale drammaturgia assemblando a piacimento i fascicoli singoli pubblicati postumi senza numerazione dall’editore Salabert come da esplicita richiesta dell’autore. La struttura dell’opera la decide l’alea ossia il caso o piuttosto il disegno drammaturgico dell’interprete.
Se l’opera è demolita nella sua struttura, non lo è di meno il linguaggio musicale scelto da Maderna che si manifesta attraverso frammenti di opere del passato da Gluck a Verdi, da Bizet a Čajkovskij, da Wagner a Offenbach e altri ancora. Il catalogo delle citazioni non è fine a se stesso ma è piuttosto un atlante di una lingua (come di una civiltà) a un drammatico punto di svolta: la fine si può esprimere solo attraverso sintagmi (e fantasmi) del suo passato. E non è certo un caso che Petronio torni in quegli snodi della storia nei quali si avverte una fine imminente: lo è stato per la celebre trasposizione cinematografica di Federico Fellini alla fine degli anni Sessanta e la di poco successiva opera di Bruno Maderna, che, intenti celebrativi a parte (due anni fa il cinquantenario), è tornata piuttosto di frequente su diversi palcoscenici. Ultima è la produzione della Fondazione Haydn, presentata al Teatro Studio del Comunale di Bolzano e al Teatro Sanbàpolis di Trento.
Perno della vicenda è la cena da Trimalcione, liberto smodatamente arricchito e tutt’altro che campione di virtù, che la regista Manu Lalli immagina come metafora della fine di tre imperi: quello della Roma antica, quello dell’ancien régime francese e quello del nostro occidente contemporaneo. Almeno a parole, perché poi il segno che domina l’interminabile festino è quello di un Settecento classicista esangue e piuttosto di maniera, almeno nei costumi disegnati dalla stessa Lalli. Gradevole alla vista ma drammaturgicamente sterile, il teatrino della scena fissa di Daniele Leone, con l’orchestra con cappellini clowneschi che suona sul fondo, accoglie i monologhi plurilinguistici dei vari protagonisti accompagnati dalle pantomime piuttosto scolastiche dei convitati del banchetto. Manca soprattutto quella commistione di sesso e morte che rende il lavoro di Maderna una “Totentanz”, un funerale della civiltà dal sapore amaramente sarcastico.
Curiosa la scelta di amplificare voci e strumenti, che, a causa di una inadeguata regia audio, finisce per soffocare la spazializzazione del suono in un ambiente teatrale piuttosto ridotto. È apprezzabile, comunque, l’impegno di tutti gli interpreti e soprattutto di Marcello Nardis, Trimalcione pertinentemente debordante, a Costanza Savarese, vocalmente molto versatile nel doppio ruolo di Fortunata e Scintilla, a Joel O’Cangha, un Habinnas espressivo ma con qualche fragilità nel lungo racconto musicale della matrona di Efeso. Peccato che l’amplificazione penalizzi soprattutto il piccolo ensemble strumentale dell’Orchestra Haydn, che comunque offre una buona prova sotto la guida di Tonino Battista.
Pubblico piuttosto numeroso nelle tre recite programmate. Applausi.
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