La crudeltà di Lucrezia Borgia

Roberto Abbado dirige a Roma una bella edizione dell’opera di Donizetti 

Lucrezia Borgia (Foto Fabrizio Sansoni Teatro dell'Opera di Roma)
Lucrezia Borgia (Foto Fabrizio Sansoni Teatro dell'Opera di Roma)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Lucrezia Borgia
16 Febbraio 2025 - 23 Febbraio 2025

Lucrezia Borgia  è uno dei titoli donizettiani mai totalmente usciti dal repertorio, insieme ad appena altri quattro o cinque. Soltanto negli scorsi decenni la Donizetti Renaissance ha riportato all’attenzione alcune sue altre opere (ma ancora troppo poche), tra cui spicca la trilogia Tudor. Ma forse proprio la riemersione dall’oblio di Anna Bolena,  Roberto Devereux e Maria Stuarda  ha spinto nell’ombra Lucrezia Borgia,  ultimo pannello di un trittico dedicato ad un’altra casata, gli Este, iniziato con Parisina  e proseguito con  Torquato Tasso.  Mentre un tempo la Lucrezia  tornava all’Opera di Roma in media ogni quindici o vent’anni, questa volta vi torna dopo ben quarantacinque anni dalla precedente edizione, quando la protagonista fu Joan Sutherland, che era nell’ultimo decennio della sua carriera ma restava sempre “la stupenda” (si può ascoltarla su Youtube).

Il caloroso successo tributato a questa nuova produzione di Lucrezia Borgia dal pubblico che riempiva il teatro dimostra che quest’opera può avere ancora una grande e immediata presa sul pubblico, grazie alla forza drammatica che conosce pochi momenti di calo di tensione, superando di slancio il rischio di essere sopraffatta da una vicenda contorta, lambiccata e totalmente incredibile. Si potrebbe pensare che questa volta Felice Romani, il miglior librettista di quegli anni, abbia combinato un bel guazzabuglio, ma in realtà non ha fatto che adeguarsi come poteva a Victor Hugo, autore del dramma da cui è ricavato il libretto. Sono proprio il gusto per l’esagerato, le distorsioni grottesche, le assurdità della trama e tutto il restante armamentario del romanticismo esasperato di Hugo a dare all’opera donizettiana una presa sullo spettatore/ascoltatore che conosce pochi momenti di calo di tensione. 

Donizetti scrisse quest’opera nel 1833 ma era ormai lontanissimo da Rossini, che aveva dominato i palcoscenici italiani fino a pochi anni prima, e per molti aspetti anticipava il Verdi del Rigoletto  (derivato anch’esso da un dramma di Hugo) e del Ballo in maschera.  Ma Lucrezia è un personaggio con pochi confronti: una donna bifronte, da una parte crudele e assetata di potere e dall’altra madre amorosa di un figlio ormai adulto (quindi è una donna di mezza età). Sconterà quest’eterogeneità dei suoi comportamenti provocando la morte del figlio, che sarà avvelenato, come appare pressoché inevitabile per rendere giustizia alla fama (giusta o meno che sia dal punto di vista storico) della sua genitrice. 

Gennaro, suo figlio, è un prode guerriero tutto d’un pezzo ma ha anch’egli un suo lato oscuro e contorto, perché ama Lucrezia di un amore non filiale, che è giustificato - ma non per questo è meno incestuoso - dal non sapere che ella sia sua madre, essendole stato sottratto quand’era ancora un fanciullo. Un personaggio eccentrico è Maffio Orsini, un giovane leggero, sventato e immaturo, interpretato da una donna: impossibile non vedervi un’anticipazione dell’Oscar verdiano. In entrambi questi personaggi si è voluto riconoscere un’attrazione omosessuale per l’amico - Gennaro nella Lucrezia  e Riccardo nel Ballo  - che in Donizetti appare anche più evidente che in Verdi e che questa volta è sottolineata dalla regia, che presenta un Maffio genderfluid, vestito con una giacca da uomo abbinata ad una gonna, anzi a un tutù. Appena entrato in scena così abbigliato, Maffio canta con trasporto a Gennaro “giurammo insiem di vivere e di morire insieme”, che è esattamente quello che cantano tutte le coppie innamorate del melodramma romantico. Nel secondo e ultimo atto il loro duetto è quasi una scena di possessiva gelosia da parte di Maffio, appena smussata dalla leggerezza e dalla brillantezza che questo personaggio condivide con l’Oscar verdiano. 

È la direzione di Roberto Abbado a dare a questa serie di situazioni, vicende e personaggi disparati una traiettoria unitaria, che segue il contorto percorso del dramma senza sbandare mai in superflue lungaggini e senza mai permettere che la tensione teatrale abbia un calo. Ormai è assodato che Abbado sia un rodato ed affidabilissimo esperto del melodramma italiano dei primi decenni dell’Ottocento, da cui forse agli inizi della sua carriera non si sentiva particolarmente attratto, perché i suoi interessi andavano a musiche più complesse, con particolare attenzione alla contemporaneità. Dalla sua esperienza in ambito moderno e contemporaneo porta nel melodramma ottocentesco il rifiuto della routine e della connessa approssimazione, l’esigenza della lettura attenta della partitura in ogni dettaglio, la precisione e il dominio assoluto dell’esecuzione anche nei passi più rischiosi, che nella Lucrezia  non mancano. Rende così giustizia all’orchestra di Donizetti, che non è né deve essere uno scrigno di preziosità timbriche ma è un elemento essenziale del dramma, a cui proprio l’orchestra conferisce la varietà di atmosfere, l’urgenza drammatica, lo spessore e la profondità del ritratto dei vari personaggi. La sua concertazione è egualmente attenta sia ai momenti apicali del dramma che a quelli apparentemente marginali, come le scene in cui i sei cortigiani intrecciano le loro voci, che Abbado calibra con la stessa precisione millimetrica che si può ottenere da un ensemble polifonico. A questo lavoro di cesello realizzato con tempi piuttosto comodi, fanno da contraltare i momenti più convulsi, cui Abbado dà talvolta tempi rapidissimi, ma sempre tenendo saldamente in pugno buca e palcoscenico. 

Le voci sono, ovviamente, l’altro pilastro fondamentale di un’opera di Donizetti. La protagonista è la ventinovenne Lidia Fridman, che ha già cantato nei principali teatri internazionali in un repertorio molto ampio, che va dall’Alcina di Haendel all’Elektra di Strauss ma ha il suo perno nei ruoli di soprano drammatico d’agilità di Donizetti, Bellini e Verdi. La voce risponde senza sforzo alle terribili sollecitazioni della parte di Lucrezia e una certa differenza tra i vari registri e qua e là un lieve vibrato non sono affatto un ostacolo anzi - se usati con la sensibilità, il temperamento e l’intelligenza che guidano la Fridman - contribuiscono alla piena realizzazione di un personaggio così ricco, complesso e contraddittorio. La Fridman si fa ammirare sia nei momenti più accesamente drammatici e in quelli più tormentati sia in quelli più elegiaci e dolenti, come il commovente lamento sul figlio morto che conclude l’opera. Ha dalla sua anche una pregevole presenza scenica, che non la fa sfigurare al confronto con il (presunto) ritratto di Lucrezia dipinto da Bortolomeo Veneto nel 1500-1510, che domina il palcoscenico nell’ultima scena del primo atto.

Gennaro è un ruolo molto impegnativa per difficoltà e lunghezza, particolarmente in questa versione, che alla prima del 1833 aggiunge due arie in più, integrate da Donizetti nell’opera per le rappresentazioni londinesi del 1838 e parigine del 1840. Enea Scala canta con sicurezza e stile: è inappuntabile ma si desidererebbe un po’ di emozione, particolarmente nella bellissima aria della morte “Madre, se ognor lontano”. Al contrario Alex Esposito intrerpreta Alfonso I d’Este, marito di Lucrezia e crudele come e più di lei, con una foga e una “cattiveria” molto efficaci e drammatiche, ma va un po’ sopra le righe e a tratti anche fuori dalla sincronia con l’orchestra, come in un’entrata completamente fuori tempo, che lo costringe a lasciare a metà una frase (la penultima del suo terzetto con Lucrezia e Gennaro), mentre Abbado deve fare una vera acrobazia per evitare guai peggiori. Ben centrato vocalmente e scenicamente il Maffio Orsini di Daniela Mack, sospeso tra commedia e tragedia. I cortigiani sono spesso resi irriconoscibili dalle maschere bianche con cui la regia ne copre il volto, ma si distaccano dagli altri Rustighello e Alfonso, che hanno un breve duettino e sono interpretati da Enrico Casari e Rocco Cavalluzzi, e soprattutto Gubetta, il perfido complice dei delitti di Alfonso e Lucrezia, interpretato in modo tanto misurato e sottile quanto incisivo da Roberto Accurso. Ma tutto il gruppetto dei comprimari è ottimo: gli altri sono Arturo Espinosa, Alessio Verna, Eduardo Niave, Raffaele Feo.

Le maschere bianche indossate dai personaggi minori e dal coro sono una delle idee con cui Valentina Carrasco vuole far passare per moderna una regia sostanzialmente tradizionale, che - precisiamolo - non sarebbe di per sé una colpa. La direzione scenica dei protagonisti e del coro rientra infatti nella più tradizionale e piatta normalità, però qua e là la Carrasco v’inserisce alcune idee personali ma non irragionevoli: per esempio, durante il preludio Gennaro bambino viene rapito mentre la madre dorme ignara di quel che sta accadendo e all’inizio del secondo atto Lucrezia incide con un coltello il nome Borgia sulla schiena di alcuni prigionieri incatenati, forse per restituire una certa dose di crudeltà a un personaggio che Donizetti rende quasi positivo. I costumi di Silvia Aymonino sono - come ormai è la norma – un cocktail di varie epoche, l’Ottocento di Donizetti e l’epoca moderna, con una spruzzata di Cinquecento. Lo spettacolo vive soprattutto delle scene di Carles Berga, ben valorizzate dalle luci di Marco Filibeck: sono scene essenziali e astratte, ma con l’inserimento di alcuni elementi ora realistici, come il salotto sovraccarico di dorature della festa del secondo atto, ora onirici, come l’immagine di un grande scheletro che nella scena finale s’intravede dietro un velo e rende visibile lo spettro della morte che incombe sull’intera opera.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

La Fondazione Haydn propone un nuovo allestimento di “Satyricon” di Bruno Maderna a Bolzano e Trento 

classica

Cajkovskij alla Scala con la regia di Martone

classica

Con l’opera donizettiana si conclude la breve stagione lirica del Teatro Comunale “Mario del Monaco”