Saalfelden, il jazz è vivo (e lotta insieme a noi)

Reportage dal festival austriaco, per raccontare la consueta parata di nuova musica avventurosa tra nuove stelle e vecchi leoni

Saalfelden - foto di Matthias Heschl
Foto di Matthias Heschl
Recensione
jazz
Saalfelden
Jazzfestival Saalfelden
23 Agosto 2018 - 26 Agosto 2018

Cartoline da Saalfelden. Appunti sparsi e qualche scampolo di riflessione sull'edizione numero trentanove del festivalone austriaco. Che si conferma ogni anno crocevia di musiche e di genti, oltre che luogo privilegiato dal quale osservare le rotazioni e le rivoluzioni del piccolo (ma non poi così piccolo) pianeta-jazz. Dall'alto di un programma fitto (una quarantina di concerti in quattro giorni) e come sempre stuzzicante; forse un po' meno grandioso rispetto alle annate più strabilianti (e un po' troppo ligio nel voler documentare a tutti i costi il nuovo che avanza, soprattutto a livello europeo), ma comunque notevole per varietà e qualità delle proposte, coerenza, coraggio e profondità di sguardo.

Scoperte, promesse e stelline

Largo ai giovani. Tanti. Tantissimi. Un piccolo esercito arrivato a Saalfelden da terre più o meno vicine. Vicinissime nel caso del batterista austriaco Lukas König, protagonista di un mirabolante faccia a faccia con Elliott Sharp. Un fuori programma tanto inatteso (inserito all'ultimo per via di un altro concerto saltato) quanto gustoso, per un'ora abbondante di improvvisazione dura e pura. Musica d'impatto, rumorosa e problematica, ad altissimo voltaggio; esaltata dalla consueta e anarchica imprevedibilità della chitarra di Sharp e dal drumming preciso, potente e matematico di König. Splendido. Così come splendido è stato l'incontro-scontro tra König e un altro assoluto terrorista delle sei corde come Brandon Seabrook, una lunga parentesi all'interno della “jammona” finale che ha lasciato il segno. Prendere nota: talento cristallino.

Brandon Seabrook a Saalfelden 2018
Brandon Seabrook

Altro giro, altro batterista austriaco. O meglio: austriaca. Judith Schwarz. Motore e spina dorsale dell'orchestra Little Rosies Kindergarten, formazione di tredici elementi in bilico tra azzardi free, detonazioni rock e magniloquenza in stile Fire! Orchestra. Discreto il gruppo, bravissima la Schwarz: lucida, fluida, essenziale. Da tenere sotto stretta osservazione. Infine tanta Austria – giovane e felix –anche tra le fila del settetto Shake Stew, alle prese con un repertorio danzereccio e trascinante (afro-beat, funky e un pizzico di Etiopia) e puntellato dalla presenza in qualità di super ospite del sassofonista londinese Shabaka Hutchings. Che ha inevitabilmente rubato la scena, sputando fuoco dal tenore e inanellando una serie di assoli ruvidi e rabbiosi. Non abbastanza però da oscurare le doti del bassista Lukas Kranzelbinder e del trombettista Mario Rom, spettacolari nel tenere testa alle sfuriate di Shabaka e impeccabili nel ruolo di gran cerimonieri della “jammona” citata qualche riga sopra (nella quale sono stati risucchiati anche i batteristi Tomas Fujiwara e Gerald Cleaver). Applausi, applausi e ancora applausi.

Shabaka Hutchings - Saalfelden 2018
Shabaka Hutchings 

Dall'Austria alla Francia per il delizioso set della cantante Leïla Martial, accompagnata alla chitarra da Pierre Tereygeol e alla batteria da Eric Perez. Voce calda e versatile, uso intelligente e sapiente dell'elettronica (una rarità di questi tempi), presenza magnetica, idee da vendere e composizioni (canzoni) azzeccatissime. Brava. Ancora Francia con Théo Ceccaldi, violinista che il talento e le idee ha dimostrato di averli da un bel pezzo. Ecco, forse un po' troppe idee nel caso del sestetto Freaks (con il fratello Valentin al violoncello). Un doppio concentrato di stramberie pseudo-zappiane e umorismo post-jazz ipervitaminico e ipercinetico. Strabiliante per una decina di minuti, noioso passati i venti, insostenibile superata la soglia della mezz'ora. Decisamente più minimale l'esibizione del quartetto franco-portoghese Chamber 4 (oltre ai fratelli Ceccaldi, il trombettista Luis Vicente e il chitarrista Marcelo do Reis), più che apprezzabile nel suo approccio cameristico all'improvvisazione acustica collettiva, sostenuta da un'intesa telepatica e da un'ispirazione sincera.

Agli antipodi la band svizzera Schnellertollermeier, infelicemente battezzata facendo crasi dei cognomi dei tre musicisti che ne fanno parte: Manuel Troller (chitarra), Andi Schnellmann (basso elettrico) e David Meier (batteria). Agli antipodi per volume (altissimo) e soprattutto per appartenenza. L'ambito di riferimento? La Chicago dei Tortoise e di Steve Albini, con un occhio agli Slint e l'altro ai The Necks. Non male.

La parata di stelline e promesse si chiude al femminile con la pianista slovena Kaja Draksler e la trombettista di Chicago (che da qualche tempo si è trasferita a New York) Jaimie Branch. Elegantissima e squisitamente raffinata la prima, che a Saalfelden è arrivata in compagnia del contrabbassista Peter Eldh e dal batterista Christian Lillinger (che non riesce mai a resistere alla tentazione di suonare tutto e suonare sempre). Tocco preciso e romantico, gusto spiccato per le melodie sghembe, senso dello spazio e delle architetture: da qualche anno ormai la Draksler è una solida realtà. Più recente l'esplosione a livello planetario della Branch, che sul palco austriaco ha presentato i brani tratti da Fly or Die, disco manifesto pubblicato dalla International Anthem nel 2017. A tessere le danzanti trame ritmiche la batteria di Chad Taylor, il contrabbasso di Jason Ajemian e il violoncello di Lester St. Louis. Buoni gli spunti, ottime le composizioni, intriganti e spiazzanti i cambi di ritmo e di atmosfera; un tantino sfilacciati e zoppicanti invece gli assoli della Branch, forse tradita da un eccesso di emozione. Rimandati.

Arrivano i nostri!

I nostri nel senso degli eroi. In fila per tre senza resto di due nel Triple Double del batterista Tomas Fujiwara (nato a Boston, ma ormai newyorchese a tutti gli effetti). Sestetto delle meraviglie costruito attorno a tre coppie di strumenti gemelli: due batterie, Fujiwara e Gerald Cleaver, due chitarre, Mary Halvorson e Brandon Seabrook, e due ottoni, la tromba di Ralph Alessi e la cornetta di Taylor Ho Bynum. Una macchina da jazz perfetta, un bigino del Brooklyn sound da sfogliare voracemente ogni qual volta si viene assaliti dal dubbio (capita, diciamocelo) che al di là del ponte siano a corto di nuove idee. Entusiasmanti i giochi di sponda tra Fujiwara e Cleaver, all'arma bianca le incursioni delle sei corde anarchiche di Seabrook, sapido e vitale il contrasto tra l'impeccabile Alessi e il gorgogliante Ho Bynum, da ovazione un paio di minuti in solitaria, tutti slide e pedali, della solita, gigantesca Halvorson. I primi della classe, senza se e senza ma, per il miglior concerto del festival.

Erik Friedlander - Saalfelden 2018
Throw a Glass

Ottimo anche il set di chiusura affidato al nuovo quartetto Throw a Glass del violoncellista Erik Friedlander, con Uri Caine al pianoforte, Mark Helias al contrabbasso e Ches Smith alla batteria. Un super gruppo per una super esibizione. Classe da vendere, controllo impeccabile, composizioni ariose e struggenti, assoli da manuale, con un Ches Smith monumentale sia con le spazzole che con le bacchette. Maestri.

Orgoglio e Resistenza

L'orgoglio è quello dell'eterno Joe McPhee, passato da Saalfelden alla testa del quintetto A Pride of Lions: Daunik Lazro al baritono e al tenore, Joshua Abrams (anche al guembri) e Guillame Séguron al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria. Zampate a tratti (soprattutto dalla pocket trumpet, dal soprano e dal contralto di plastica bianca e dalle meccaniche arancio di McPhee), momenti di stanca (troppi) e nostalgia in dosi massicce. Decisamente più incisivo il quartetto Song of Resistance di Marc Ribot, spina dorsale di un progetto che a breve culminerà in un disco al quale presteranno la voce ospiti del calibro di Tom Waits, Sam Amidon, Steve Earle e Meshell Ndegeocello. In scaletta canti partigiani, canzoni di protesta, inni operai e work song. Nel disco. Dal vivo diciamo che il quartetto è una versione più funky (molto più funky) e meno punk (molto meno punk) dei Ceramic Dog. Ribot ci mette la voce di tanto in tanto, è vero, declama e canticchia (compresa una versione a stelle e strisce di “Bella ciao”), ma di spazio per Jay Rodriguez (sax soprano e flauto), Nick Dunston (contrabbasso) e Nasheet Waits ce n'è parecchio. Una discreta sventola, insomma: tantissimo Ayler, un pizzico di Miles elettrico e la chitarra di Ribot (ma che ve lo dico a fare?) a levare il fiato e la terra da sotto i piedi.

Joe McPhee - Saalfelden 2018
Joe McPhee

Chiusura di resoconto di nuovo al femminile e all'insegna delle commistioni con l'ottetto Mandorla Awakening della flautista di Chicago Nicole Mitchell. Un pasticciaccio di stili, linguaggi e timbri (arpa, banjo, violoncello, shakuhachi, tamburo taiko, elettronica e chitarra elettrica) rimasto impantanato nel quasi nulla fino al momento in cui i riflettori si sono accesi sulla voce del cantante e rapper Avery R Young. Protagonista di una performance sconvolgente per intensità e convinzione, con il palco trasformato nel pulpito di una chiesa del Sud e il pubblico rapito dall'incendiario sermone. Amen, glory glory e hallelujah. Il jazz è vivo e lotta insieme a noi.

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