Certo, l'operazione era interessante: riportare in scena, come una sacra rappresentazione una Passione settecentesca, la "Johannes" di Bach. Era opportuno andare, sedersi, ascoltare. Nessuno schema, nessun a priori. Così, quando il coro e l'orchestra attaccano "Signore, nostro padrone, la cui gloria impera su tutte le nazioni", le cose cominciano a persuadere; davanti a noi, al centro del palcoscenico, disegnato da Francisco Leal, un cubo, una scatola aperta verso chi guarda e, prospetticamente, verso il fondo, la scatola bianca che accoglierà la narrazione della morte di un uomo, del suo martirio, voluto da uomini di cui aveva insidiato certezze e comodità. Un cubo che ha in incubazione tutta la storia dell'umanità, perché come in titoli veloci di testa, gli scorrono dentro , luce che squarcia il buio del cuore, tutti i simboli sapienziali delle civiltà più arcaiche, mentre il Tempo rotola verso l'Anno Zero della nascita del Protagonista; i simboli diventano caratteri, e poi parole, e infine, la Parola, il "Vangelo di Giovanni". Il cubo che ha l'incubazione dell'umanità, e che ha concepito, gestato e infine partorito un Incubo, quello di un uomo che viene ucciso perché ha amato troppo, e ha chiesto agli uomini di amare semplicemente, quindi troppo. Poi, l'Evangelista al leggio, il Gesù pacato e platonico, un po' Gurdjieff di José van Dam, inconsueto per l'inconografia spettacolare di Cristo; donne di semplicità medievale, alla Dreyer; un coro in bianco e nero un po' troppo domenicano. Ecco: Christophe Rousset, dirigendo l'Academia Montis Regalis , che ha restituito un suono mite, antico all'oratorio di Bach, e le voci di Elizabeth Norberg-Schulz, Wilke te Brummelstroete, Jeremy Oveden, Christian Gerhaher, Kurt Azesberger, Paolo Rumetz (vocalmente il più sicuro, imponente, alla prima molto piccolo borghese del Regio di Torino, dove i non molti spettatori in abbonamento assistevano con compassione da messa domenicale, un po' distratti e un po' commossi per la storia "di quel poveretto", che hanno applaudito con malinconica cortesia al termine), ha lottato contro l'evidenza visiva di un monumento dell'ascolto rarefatto, riformato e protestante, per definizione non-iconico, tutto interiore. Bach cattolicizzato cos'è mai? I fiati dell'orchestra, spietatamente spinti al protagonismo dalla scrittura di Bach, più volte hanno esitato, come emozionati da quell'esser improvvisamente nudi davanti all'ascolto raffinatissimo. Gli archi e il coro, invece, hanno fatto la sera. Hanno fatto quasi tutto. Il protagonista Yin Yang, Bene&Male della Johannes-Passion firmata dalla regia di José Carlos Plaza è stato il coro, con i suoi passi felpati, il suo scivolare ambiguo ma perentorio, implacabile negli spazi lasciati liberi dal Cubo. L'immagine più bella? La salita al Golgota, quando, controluce, i crocifissi trainati con dolore erano comparse irrigidite, con le braccia a croce, aperte, solenni, così concrete in quella fatica inaccettabile.
Note: nuovo all.
Interpreti: Norberg Schulz, te Brummelstroete, Ovenden, Gerhaher, Azesberger, van Dam, Rumetz
Regia: José Carlos Plaza
Scene: Francisco Leal
Costumi: Pedro Moreno
Orchestra: Academia Montis Regalis
Direttore: Christophe Rousset
Coro: Coro del Teatro Regio di Torino
Maestro Coro: Bruno Casoni