Otello, tragedia moderna

Torna in scena a Palermo, con qualche dissenso, la regia di Martone del capolavoro verdiano

Otello (Foto Rosellina Garbo)
Otello (Foto Rosellina Garbo)
Recensione
classica
Teatro Massimo di Palermo
Otello
24 Gennaio 2025 - 30 Gennaio 2025

Approda infine anche a Palermo la regia (coprodotta col Teatro San Carlo) di Mario Martone dell’Otello verdiano. Il mare cipriota è sostituito da un deserto vicino- o medio-orientale, nel quale opera militarmente un attuale esercito occidentale d’intervento armato (NB: le turbinose azioni iniziali generano comunque rifugiati ‘naufraghi’ nella popolazione civile, come da kit di salvataggio indossato…); Otello è ovviamente il generale in capo di tale spedizione, ma Desdemona non è solo la sua promessa sposa: è anche una soldatessa, che opera nel settore medico-umanitario della spedizione. Perciò, la violenza omicida matura sì in un contesto di genere, ma pure indipendentemente da questo: il ‘mio signore’ di Desdemona nel libretto suona anche come quello di un qualunque sottoposto nelle gerarchie militari, e il fatidico ‘fazzoletto’ è altresì un indumento distintivo da campo di battaglia; sicché la catastrofe finale sembra un fallimento cui ogni sopraffazione gerarchica è fatalmente destinata, pure quando la forza come tale prova a temperare e a porre rimedio alla sua inevitabile crudeltà con la programmazione o la ‘pietà’ umanitaria. Il praticare quest’ultima, e il recalcitrare più della Desdemona vulgata alle immotivate ingiurie del suo capo e carnefice, non salva comunque il personaggio femminile dallo status di vittima sacrificale (benché impugni – inutilmente – una rivoltella nel confronto finale), e non concede neppure a Otello l’accorato gesto conclusivo sul cadavere della donna, portato via in fretta dall’efficiente apparato militare: gli operatori di questa forza cieca, Otello quanto Jago, sono condannati a essere uomini spaventosamente soli, accecati dai loro deliri di possesso e di superiorità; i loro terribili programmi o sviamenti, morte d’Otello compresa, avvengono al di qua di una parete-cortina metallica, nuda, brutta, un muro che cala – rumorosamente – a separarli dal mondo già problematico per confinarli in una realtà sostanzialmente solipsistica, il cui attraversamento sul limite del suo serrarsi in basso o attraverso una porticina stretta è restata una delle soluzioni spaziali più forti di questa regia. La quale ha, di conseguenza, puntato tantissimo sulla rete di segni scenici – peraltro assai incisivi anche nella desolata stranianza spazio-temporale, come per il prefabbricato militare dell’ultimo atto, e nell’evidenza cromatica – derivati dallo sviluppo di un pensiero interpretativo, tralasciandone altri evocati nel libretto stesso, col puntuale – e, s’immagina, previsto – risultato d’incassare una quota di dissenso dal pubblico della prima (ma ci raccontano che, alle repliche, il team registico ha ricevuto tutt’al più magri applausi di circostanza).

La direzione musicale di Jader Bignamini è sembrata puntare soprattutto all’alleggerimento della partitura strumentale, lasciando operare drammaturgicamente più la sua componente figurale che quella timbrico-dinamica. Forse, una strategia per far trasparire la trama vocale dei magistrali insiemi verdiani (nei quali anche i cori, qui guidati da Salvatore Punturo, hanno spesso mostrato un’integrante trasparenza), e per predisporre a miglior partito la prova dei protagonisti vocali. Chi ne ha tratto il massimo giovamento è stato senz’altro lo Jago di Nicola Alamo: emissione rotonda e solidamente poggiata, suono ben proiettato, parola e fraseggio nitidi, attorialità sicura, Alaimo ha potuto sfruttare tutto l’ambito timbrico-dinamico della propria vocalità, a partire dal pianissimo sussurrato, dosando perciò al meglio tutti i suoi interventi. Interessante la Desdemona di Barno Ismatullaeva, per la qualità sobria e insieme modellata della sua esecuzione, assai confacente al carattere non passivo e - in parte - oltre-genere del personaggio in questa regia, sì da centrare una qualità personale e di speciale struggenza negli episodi della scena solistica del finale. La parte di Otello è notoriamente proibitiva, e Yusif Eyvazov l’ha sofferta soprattutto nei primi atti, a causa di una formazione un po’ ‘arretrata’ del suono che l’ha portato a forzare verso un tono un po’ metallico; nondimeno la sua resa è migliorata nel corso della recita, terminata in crescendo. Bene tutti gli altri, in particolare i due personaggi maschili (Riccardo Rados come Cassio, Andrea Schifaudo come Roderigo) solo apparentemente secondari.

 

 

 

 

 

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