Nel buio della Dama di picche
Napoli: successo per lo spettacolo inaugurale della stagione del San Carlo con Valčuha sul podio
Siamo a Napoli, all’inaugurazione della stagione lirica 2019-2020, per seguire la produzione della Staatsoper di Amburgo con Pikovaja Dama, capolavoro russo di dimensioni internazionali, precedente ad opere come The Rakes’s Progress di Stravinskij, totalmente estranea a Puccini, e forse più lontana anche di Evgenij Onegin. Un'opera senz'altro atipica, di segrete affinità tra ossessione e follia, con poca azione, apertamente intellettuale e filosofica, musicalmente ispirata in parte da Mozart e che produsse un prodigioso balzo in avanti nella storia della musica russa dopo Glinka, di una delle personalità più affascinanti e più complesse della musica tardoromantica europea: Pëtr Il'ič Čajkovskij. Nella concezione ideologica di La Dama di Picche si ritrovano le ambientazioni russe di Gogol, spunti dalla Carmen di Bizet, le contraddizioni dei modernisti, che ruotano attorno al fulcro dell’amore. Lasciando ad altre sedi i diversi riferimenti letterari di Puskin, l'opera costituisce per il regista Willy Decker ed il suo assistente Stefan Heinrichs, nella sua essenza, un sofferto tentativo di trovare una via di soluzione al problema della relazione amore-ossessione.
La messinscena, studiata sul profilo interiore del protagonista, è sublimata nell’immagine gigante del viso di Hermann al centro del palco con la funzione di condurre il protagonista ad esplorare il proprio inconscio. Quest’introspezione, meno che solitaria, accompagna i primi due dei tre atti, sostituita da un altrettanto spazio vuoto con il solito tavolo da gioco nell'atto finale. Buio e silenzio aprono la scena iniziale, un suggestivo gioco di luci svela l’immagine di Hermann seguendo il travolgente crescendo musicale dell’orchestra – morbida, restituisce ogni dettaglio del suono che corre con naturalezza. Hermann appare davanti alla sua psiche. Un grandissimo Misha Didyk, vera star - tenore vocalmente sfaccettato, con chiaroscuri, diminuendi, legati preziosi.
Tutt'intorno, il coro, come in un anfiteatro, partecipa ai giochi, il baritono Tómas Tómasson, il conte Tomskij, è cinico e gradevole nella bellissima ballata che racconta di presagi. Ma lo spettacolo non decolla mai, è nero. La sala rimane buia per tutta l’opera, si muovono pannelli tetri che ridefiniscono spazi vuoti: Hermann è dentro e vaga tormentato nella sua psiche. È timbricamente perfetta per il ruolo Anna Nechaeva, Liza, con colorature espressive al limite del velluto, ma da plasmare sulle sfaccettature più drammatiche. Poi non dovrebbe morire uccisa. Tra le voci spicca anche il principe Eleckij, Maksim Aniskin, Polina, Aigul Akhmetshina e la contessa, Julia Gertseva. Toccante il coro fuori scena, diretto da Gea Garatti Ansini, al funerale della contessa, molto bene quello maschile al terzo atto. Poi avere in buca un direttore come Juraj Valčuha, che crede nella musica come pensiero, qui straordinario, seppur nel suo stile - nella lettura di una partitura complessa di cromatismi, modalità arcaiche, variazioni, leitmotiv, tensioni espressive, risoluzioni sempre differenti oppure assenti - è senza dubbio privilegio. Concertato il tutto con ricca espansione, fluidità armonica e ritmica da Valčuha, il buio dominante delle luci di Hans Toelstede riprese da Wolfgang Schünemann e le scene di Wolfgang Gussmann non vedono mai l'alba, soli di primavera o bagliori, neanche alla visita di Caterina alla festa da ballo. Hermann non vince con l’ultima carta e, rimasto solo, esala l’ultimo respiro sul quale si chiude l'opera. Attualissima, perché la grande arte parla sempre al presente.
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