Racconti della città plurale a OFF 2025

All’Opera Forward Festival di Amsterdam “Oum” di Busra El-Turk, “We Are the Lucky Ones” di Philip Venables, “Codes” di Gregory Caers e Bas Gaakeer e l’installazione “The Sound Voice Project” di Hannah Conway 

Oum (Foto Bart Grietens)
Oum (Foto Bart Grietens)
Recensione
classica
Amsterdam, De Nationale Opera & Ballet
Opera Forward Festival 2025
14 Marzo 2025 - 30 Marzo 2025

Opera Forward Festival, anno nono. Sperimentale più che nelle edizioni recenti, l’edizione di quest’anno mette in discussione il concetto stesso di “opera” proiettandolo in territori inediti che parlano di inclusione, di multiculturalità, di allargamento a linguaggi musicali e drammaturgici diversi. Inclusione è la parola chiave anche di questa edizione che quest’anno si declina nel rovesciamento del tradizionale paradigma di una cultura che si esporta nelle periferie abitate da chi difficilmente ha accesso all’offerta culturale e aprendo invece proprio a loro le porte dei cosiddetti templi della cultura, soprattutto il teatro d’opera, rimuovendo quanto più possibile gli ostacoli anche psicologici e proponendo un’offerta culturale capace di parlare a un pubblico “altro”. Stando ai numeri, la formula sembra funzionare, poiché poco meno della metà del pubblico delle tre produzioni principali di questo Opera Forward Festival – Oum, We Are The Lucky Ones e Codes – è fatto da chi in un teatro lirico non ha mai messo piede. Altra novità dell’edizione 2025 è l’alternarsi di tutte e tre queste produzioni sul grande palcoscenico dell’Opera Nazionale Olandese: una scelta che impone anche un ripensamento di format e formule produttive più leggere e portabili. 

Oum Kalthoum, la grande madre

Amsterdam è da sempre una città di storie diverse e Oum è un contributo a raccontare una di quelle storie: parola di Touria Meliani, origini marocchine e attuale assessora alle arti, cultura e città digitale della Città di Amsterdam. Lo dice in chiusura del percorso fra musica e cucina che precede la prima del nuovo lavoro della compositrice Busra El-Turk. Si dice che gli Arabi si dividano moltissimo fra di loro tranne che su due temi: Dio e Oum Kalthoum. Spesso si dividono anche su Dio, ma mai su Oum Kalthoum. A dirlo è Mohamed Aadroun, cofondatore e direttore creativo della Amsterdams Andalusisch Orkest, ensemble musicale dal repertorio che spazia da quello arabo andaluso alla mistica orientale, dalla musica araba di improvvisazione alla musica popolare del Maghreb. Oum Kalthoum fu tra le più celebri e amate cantanti in tutto il mondo di lingua araba. Quando morì nel 1975, diversi milioni di persone seguirono il suo funerale nelle strade del Cairo ma la sua voce non si spense. Al contrario, quella voce continuò a risuonare nelle case di moltissimi emigranti dal Medio Oriente o dal Maghreb trasformandosi in un potente simbolo identitario anche per le generazioni più giovani, che l’hanno conosciuta attraverso i vecchi vinili dei genitori. 

“Ognuno ha bisogno di sentirsi in contatto con il proprio retroterra, con la propria cultura. Questo è particolarmente importante e allo stesso tempo più complicato per le persone con radici biculturali” dicono le due autrici principali di questo progetto, nato e cresciuto da uno sforzo collettivo attorno all’idea della ricerca di una casa. La compositrice Bushra El-Turk ha scritto le musiche di Oum ispirandosi a Oum Kalthoum come omaggio alla cantante egiziana ma evitando il recupero antologico e coniugando tradizione occidentale con sonorità mediorientali come già nel suo precedente Woman at Point Zero. Anche lei, nata a Londra nel 1982 da genitori libanesi in fuga dalla cruenta guerra civile scoppiata nel 1975, quella cantante morta mezzo secolo fa l’ha conosciuta dai vecchi dischi dei genitori. E così l’ha conosciuta anche la regista Kenza Koutchoukali, nata nel 1988 nei Paesi Bassi da padre algerino. 

Oum non è un ritratto della cantante egiziana ma, come recita il sottotitolo, si tratta piuttosto della ricerca della madre da parte di un figlio (Oum o Umm significa mamma in arabo). Nel concreto si tratta di un lungo monologo in lingua inglese affidato alla voce e ai gesti dell’intensa Nadia Amin, scritto da Wout van Tongeren attingendo dal romanzo Visage retrouvé e dal testo teatrale dalla pièce Un obus dans le coeur di Wajdi Mouawad, altro figlio di una famiglia libanese in fuga dalla guerra, che racconta di un complesso riavvicinamento di un giovane emigrato alla madre morente e alla famiglia riunita attorno al suo capezzale. È un percorso doloroso e conflittuale nella propria memoria e nel riconoscimento della propria cultura, che trova un equilibrio solo dopo la morte della madre e il finale affidato a Al-Atlal (Le rovine), una delle canzoni più celebri di Oum Kalthoum, eseguita in numerosi concerti di beneficenza in diversi paesi arabi dopo la rovinosa sconfitta dell’Egitto nella guerra dei Sei Giorni contro Israele: “Quanta fantasia abbiamo costruito attorno a noi / Abbiamo camminato su un sentiero illuminato dalla luna / La gioia ci balza davanti / Abbiamo riso come due bambini hanno riso insieme / Ce lo avevano promesso e la nostra ombra ci ha preceduto.” La voce che intona i versi di Ibrahim Nagy è quella della tunisina Ghalia Benali, che con la siriana Dima Orsho e l’indonesiana Bernadeta Astari contrappuntano con i loro vocalizzi il lungo monologo (o melologo) accompagnato dalla trama musicale di marcato sapore etnico di Busra El-Turk.

È quasi un concerto scenico quello allestito da Kenza Koutchoukali sul grande palcoscenico dell’Opera Nazionale Olandese con l’Amsterdams Andalusisch Orkest che lo scenografo Yannick Verweij schiera su una tribuna sul fondo e dispone solo un semplice panca come nella sala d’attesa di un ospedale con un tavolino con sopra un telefono il cui squillo mette in moto l’azione scenica illuminata dalle espressive luci di Yuri Schreuders

 

Codici urbani contemporanei

Di identità e cultura urbana racconta anche Codes ideato e diretto da Gregory Caers con le musiche di Bas Gaakeer. Sono ben 170 i giovani performer e musicisti schierati sull’enorme palcoscenico vuoto illuminato da un cielo di luci mobilissime immaginate da Dennis Diels. Una dozzina di performer, un coro di 90 voci (il VU-Koor preparato da Dody Soetanto) e un esercito di studenti del primo e secondo anno della MBO Theaterschool di Rotterdam partecipano a un rito collettivo ispirato alla multiculturalità di Amsterdam, pensato per l’occasione del suo compleanno numero 750, tantissimi anni ma portati benissimo. Codes è costruito come una successione di quadri fatti di danze collettive quasi tribali, con parentesi di canto e di riflessioni individuali sulle domande e i dubbi tipici delle generazioni più giovani. Li accompagna una band di nove elementi guidata dallo stesso Bas Gaaker anche alla chitarra elettrica. Un po’ musical fin troppo ottimista (ma c’è ancora tempo per le inevitabili delusioni della vita), un po’ saggio di scuola, questo Codes è comunque una straordinaria esplosione di energia giovanile. 

 

I fortunati che cantano 

Della generazione dei nonni racconta invece We are the Lucky Ones ultima fatica dell’ormai consolidato tandem artistico costituito dal compositore Philip Venables e dal regista e drammaturgo Ted Huffman, per questa fatica coadiuvati dalla penna di Nina Seagal. I “fortunati” del titolo sono le ottanta persone cresciute subito dopo la guerra e oggi ottantenni, vissute quindi in uno dei periodi di pace e prosperità più lunghi del continente europeo. Queste testimonianze collettive di rassicurante e anonimo benessere sono state tessute in una trama fatta di molte esperienze condivise – i primi amori, la scuola, l’inizio del percorso lavorativo, il matrimonio, i figli, le crisi coniugali, la ritrovata solitudine dopo l’abbandono del nido da parte dei figli, gli acciacchi dell’età, la malattia e l’imminente congedo dalla vita con il suo carico di rimpianti – e i drammi individuali. 

Un racconto polifonico fatto non da otto personaggi ma dalle otto voci intrecciate dei formidabili interpreti e versatilissimi performer di questo brillante lavoro (Jacquelyn StuckerNina van EssenHelena RaskerMiles MykkanenFrederick BallentineGermán OlveraAlex RosenClaron McFadden, alla quale però presta la voce Katrien Baerts a causa di una improvvisa indisposizione) di una vita “tipica” scandita dall’inesorabile scansione degli anni e qualche allusione a eventi epocali che hanno segnato la memoria collettiva di quella generazione: 1940 e la guerra, 1945 e la rinascita dalle macerie, 1953, 1963 e l’attentato a Kennedy, 1968 e la conquista dello spazio, 1972, 1986, 1999 e la paura del passaggio di millennio esorcizzata ballando il tiptap (con le sorprendenti claquettes del tenore Mykkanen), 2003 e la felicità di ritrovarsi ancora tutti seduti insieme (ma anche lamentandosi che la domestica non pulisce bene come dovrebbe anche se è una così brava persona), 2012 sempre meno in ascolto del mondo con il corpo che non risponde più come un tempo (e l’interrogarsi su a chi lasciare quei mobili che i figli ormai non vogliono più), 2016 e quel carico enorme di rimpianti, il 2025 e la fine che si sente sempre più vicina… 

Il tempo scorre inesorabile e leggero sulla passerella tutta davanti al grande sipario parete che incornicia l’orchestra e che sembra la passerella di un varietà che si chiama vita. È tutta lì la scenografia pensata dallo stesso Huffman come gli eleganti abiti da sera di cui, con la collaborazione di Sonoko Kamimura, veste gli otto performer, unica concessione a una individualità altrimenti negata nel racconto scenico. Un mosaico di fogli bianchi, tessere di una memoria inesorabilmente labile, viene incollato con lo scotch all’enorme fondale per mostrare immagini di famiglia, di famiglie, come fossero vecchie diapositive che ormai sono reliquie di un passato nemmeno così lontano (in realtà compilate in immagini video da Nadja Sofie EllerTobias Staab). Tutto il resto è la coreografia, perfetta, disegnata per quegli otto interpreti da Pim Veulings. 

Se è inevitabile il retrogusto amaro di quella sintesi iperrealistica di 90 minuti di una vita che è tutte le vite insieme, si cerca di addolcire con una generosa dose di ironia, distribuita copiosamente dalla stilisticamente eteroclita e teatralmente intelligente partitura di Venables, che per la prima volta scrive per una grande orchestra (ad Amsterdam la Residentie Orkest diretta in questa occasione da un illuminato Bassem Akiki). Non è certo la frontiera della musica di ricerca, ma quel composito collage di parentesi jazz, musiche da ballo, filastrocche virate in grottesco (notevolissimo il San Silvestro da incubo del passaggio di millennio), serve benissimo questo lavoro che dopo Amsterdam si rivedrà la prossima estate alla seconda Ruhrtriennale di Ivo van Hove. Molti applausi e ovazioni alla passerella finale, accompagnata dalla vecchia hit di Bonnie Tyler “Total Eclipse of the Heart”, per aggiungere un po’ di nostalgia e per consolarsi un po’: “And I need you now tonight / And I need you more than ever / And if you only hold me tight / We'll be holding on forever.” 

 

Ridare la voce con la musica 

Nella vitale esplosione di creatività a briglia sciolta delle diverse produzioni collaterali, si distacca The Sound Voice Project della giovane compositrice britannica Hannah Conway. Non si parla strettamente di opera anche se di micro-opere è fatto quel progetto ma di un suo ingrediente fondamentale: la voce. È un progetto che parte da alcune domande tanto ovvie quanto fondamentali: cosa significa avere una voce? E, soprattutto, cosa succede quando scompare quella voce a causa di una malattia? Cosa rimane di noi, della nostra personalità? “Quando si perde la voce, si viene privati di molto più della semplice capacità di comunicare. Si perde anche parte della propria identità, della propria personalità e della propria individualità”, dice uno dei soggetti coinvolti nella riflessione di Conway, sbocciata in una struggente creazione artistica a partire da una esperienza personale, cioè la perdita della capacità di parlare del padre. Lavorando con medici specialisti, cantanti lirici e persone che hanno vissuto in prima persona la perdita della capacità di esprimersi con la propria voce, Hannah Conway ha composto una serie di micro-opere con delicate musiche da camera di segno minimalista e di sapore elegiaco su testi di Hazel Gould per ridare una voce e regalare un canto a quelle persone. Nello spazio al buio dello Studio Boekman, su tre schermi paralleli vengono proiettati tre segmenti: Paul, uno struggente canto d’amore di Paul Jameson espresso in duo con il baritono Roderick Williams, I Left My Voice Behind con un curioso (e orgoglioso) coro di pazienti sopravvissuti al cancro alla gola dopo un trattamento salvavita di laringectomia, e Tanja, struggente testimonianza di una giovane madre, Tanja Bage, ai due figli prima di abbandonare la propria voce e quindi esibirsi in un canto a due con il soprano Lucy Crowe. 

 

Messa in archivio l’edizione 2025, si guarda già all’edizione del decennale con Theory of Flames, riflessione fra video e musica su disinformazione e teorie del complotto di Michel van der Aa, Requiem di Meriç Artaç, riflessione poetica e multistrato sulla transizione tra la vita e la morte in un allestimento di Silvia Costa, e The Knife of Dawn di Hannah Kendall and Tessa McWatt dedicato all’attivista politico e poeta guyanese Martin Carter, incarcerato senza alcuna accusa per aver lottato per l’autonomia del suo Paese. L’avventura continua. 

 

 

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