Muti torna a casa
Si chiude la 33ª edizione del Ravenna Festival con un programma poco consueto affidato alla “Cherubini” e al suo mentore
Dirottato a Loreto il tradizionale appuntamento del Ravenna Festival con “Le vie dell’amicizia”, l’incontro estivo di Riccardo Muti con la sua città di elezione si è ristretto quest’anno a un solo concerto, collocato a coronamento della 33ª edizione del Festival, come serata finale del cartellone estivo. E il ritorno all’ampio spazio del Pala De André, con 2500 spettatori in sala, sa di rientro a casa, dopo i concerti del 2020 e 2021 programmati all’aperto per motivi legati alla pandemia.
L’orchestra è ovviamente quella Giovanile “Luigi Cherubini” cui il Maestro dedica sempre più energie, e che è ormai diventato il suo “strumento” quasi esclusivo nelle esibizioni italiane, con esiti artistici sempre più alti, in una continuità stilistica raggiunta e stabilizzatasi a dispetto dell’inesorabile turnazione dei suoi giovani componenti.
L’interesse di riascoltare ancora una volta il grande Maestro era reso ancor più vivo in questa occasione dalla scelta dei brani in programma, che esulavano dal repertorio consueto di Muti e che in generale possono dirsi tutti di rara esecuzione, oggi, nei cartelloni sinfonici delle nostre orchestre: brani che traggono vantaggio da un suono ricco e pieno, reso qui possibile dalla straordinaria ampiezza del palcoscenico del Pala De André, capace di accogliere una “Cherubini” a ranghi completi (una novantina di elementi), con numeri che non sarebbero possibili sugli angusti palcoscenici della maggior parte dei nostri teatri storici.
La sinfonia Roma in do maggiore di Georges Bizet (1869) è una partitura senza spigoli, sempre eufonica, un toccasana per contrastare il mondo brutto e cattivo che ci circonda. Muti ne ha sottolineato la classica compostezza fin col gesto direttoriale, di anno in anno sempre più scarno ed essenziale (irriconoscibile, ormai, se paragonato alla spettacolare irruenza di mezzo secolo fa): nel complesso, un’esecuzione capace di mettere in luce il particolare valore della partitura tanto da farne desiderare ascolti più frequenti.
L’avvio della seconda parte della serata ha ospitato una toccante premiazione, da parte del Ravenna Festival, di Silvia Lelli, l’ormai storica artista dell’immagine fotografica che insieme al recentemente scomparso Roberto Masotti – di origine ravennate entrambi – per oltre 40 anni ha documentato protagonisti ed esiti dello spettacolo italiano, con particolari presenze alla Scala e allo stesso Ravenna Festival.
Il ritorno alla musica ci ha permesso di ascoltare il poema sinfonico Il lago incantato (1909) del compositore russo Anatolij Konstantinovič Ljadov, allievo di Rimskij-Korsakov e maestro a sua volta di Prokof’ev: breve pagina che potremmo facilmente dire impressionistica, tutta affidata a un suono soffuso, appena evocato, quasi un lungo preludio a qualcosa di ineffabile, che non arriverà mai. Ottima l’orchestra, che ha saputo convogliare la massa sonora in sonorità tenui ma sempre sostenute: davvero, ascoltando questa esecuzione, veniva da pensare al livello che la “Cherubini” ha ormai raggiunto, imponendosi fra le migliori orchestra italiane.
Finale più roboante, con Les préludes (1856) di Franz Liszt, una partitura che Riccardo Muti aveva frequentato negli anni giovanili e cui oggi ritorna con quella compostezza di cui si diceva: il suono è solenne, mai pomposo, e i tempi leggermente trattenuti, evitando così a quel brano la retorica di cui è stato più volte caricato.
Delizioso fuori programma con l’appassionato intermezzo dall’opera Fedora di Umberto Giordano, orgogliosamente presentato dal Maestro come un frutto dell’arte musicale pugliese, in contrapposizione alla tanto più conosciuta produzione di Verdi e Puccini: esecuzione impeccabile!
In definitiva, un concerto molto interessante, tra i migliori delle ultime presenze ravennati di Riccardo Muti, tutt’altro che scontato nel programma, dipanatosi senza clamori, con una sana semplicità da “aria di casa”.
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