Muti in punta di piedi

L’inaugurazione del Ravenna Festival 2020 come simbolica ripresa delle attività concertistiche nazionali

Il concerto inaugurale del Ravenna Festival (Foto Silvia Lelli)
Il concerto inaugurale del Ravenna Festival (Foto Silvia Lelli)
Recensione
classica
Ravenna, Rocca Brancaleone
Muti e l'Orchestra Cherubini
21 Giugno 2020

Nella corsa a riaprire le sale da concerto, nessuno ha battuto in Italia le “Quattro stagioni” programmate dai Pomeriggi musicali al Teatro Dal Verme di Milano, sullo scoccare della mezzanotte del 14 giugno; e nella settimana appena conclusa, in ogni città si sono susseguite le occasioni per tornare ad ascoltare musica dal vivo, dopo un mese e più in cui l’unica possibilità era stata offerta dai riti liturgici (sperando nella valentìa dell’organista di turno).

Ma il concerto del decano fra i direttori d’orchestra italiani, come inaugurazione del Ravenna Festival 2020 alla presenza delle alte cariche politiche, programmato perdipiù in occasione della Festa internazionale della musica, ha costituito una sorta d’evento ufficiale, di valenza nazionale.

La “ripartenza”, dopo la chiusura imposta dall’epidemia sanitaria, ha trovato simbolicamente il suo spazio là dove, il 1° luglio 1990, il Ravenna Festival aveva avuto il suo battesimo, sempre sotto la bacchetta di Riccardo Muti: nell’accogliente corte interna della Rocca Brancaleone, già sede per anni di felici proposte musicali estive.

All’insegna delle sanificazioni e distanze sociali con cui siamo ormai abituati a convivere, anche gli orchestrali della Orchestra Giovanile Luigi Cherubini hanno dovuto distanziarsi adeguatamente sul palcoscenico, affrontando difficoltà acustiche e pratiche, a cominciare dal leggio singolo per ogni strumentista, che rende ardue le voltate di pagina in contemporanea.

Non c’è stato, come altrove, l’applauso liberatorio iniziale del pubblico, anche per un’oggettiva mancanza del “grande pubblico” (appena 350 spettatori adeguatamente distanziati anch’essi), che si è dovuto accontentare della diretta radiofonica e in streaming.

Tutta la serata, a ben vedere, ci ha visti letteralmente spettatori di un concerto che gli artisti producevano per loro stessi, per la loro personale gioia di tornare a far musica insieme, davanti ai nostri occhi complici e grati.

Nessuna enfasi, nessuna retorica, neppure nell’Inno nazionale di rito che scorreva fra ben poca marzialità e tanta scioltezza, col rullo iniziale affidato alla morbida membrana del timpano anziché alla secchezza del tamburo. Complice anche l’acustica un po’ ovattata ottenuta con adeguati pannelli acustici, è sembrato insomma un ritorno in punta di piedi, senza strepiti: il risveglio sereno dopo un brutto sogno.

Anche il programma del concerto era simbolicamente confezionato in tal senso: aperto dalla Rêverie di Skrjabin, proseguiva all’insegna di Mozart con un moto di gioia – quasi da risurrezione – espresso nel mottetto Exultate, jubilate; e dopo il raccoglimento religioso sulle note di Et incarnatus es tdalla Messa in do minore, ecco lo sguardo verso speranze future con l’ottimistica Sinfonia Jupiter.

Fra i tanti pensieri che ci attraversavano la mente durante quell’ora di musica, tre sono le sensazioni estetiche che ci porteremo nella memoria: il suono speciale che l’Orchestra Cherubini ha tratto dal tessuto tardo-romantico di Skrjabin, carezzevole, affettuoso, intimo; il timbro tornito del soprano Rosa Feola che nel mottetto mozartiano (scritto per un celebre castrato) ha affrontato al meglio la tipica estensione oltre misura della parte vocale, con particolare riuscita nelle sempre pericolose discese al grave, dove ci ha risparmiato volgari “suoni di petto” a favore di suoni naturalmente bruniti; la pacatezza di Muti nella Sinfonia finale, “ridotta” – o dovremmo dire “elevata” – a stile di amichevole conversazione (cosa non diventava il tema saltellante nella coda dell’esposizione, che pareva uscire dalla sua bocca anziché dai violini!), con tempi trattenutissimi nell’ultimo movimento, riecheggianti le prove più mature di Carlo Maria Giulini.

Ripartenza: è la parola d’ordine di questa settimana, in Italia, dalle scuole allo sport, dal turismo ai teatri. E si parla di rinascita economica, con progetti ambiziosissimi. Ma in tutto questo parlare, progettare, promettere, ci sarà uno spazio politico anche per la musica? si arriverà a capire che un concerto non è solo intrattenimento e che le orchestre hanno bisogno della stessa attenzione che si riserva a un’impresa produttiva di beni e servizi? fra i sussidi a pioggia che irrorano tutte le categorie, resterà qualcosa per far finalmente partire anche la Musica?

Sì, “partire”: perché – come ben sappiamo – dire “ripartire” sarebbe in questo caso un ironico eufemismo, là dove, in oltre mezzo secolo dopo la ripartenza post-bellica, non è ripartito proprio nulla, in Italia, sul piano dell’educazione musicale di base e di tutto ciò che ad essa segue e consegue.

Come lo stesso Muti va ripetendo da decenni, in un grido di dolore ininterrotto, rispetto a cento anni fa contano in numero maggiore i teatri che si sono chiusi alla musica di quelli aperti ex novo. E l’utopia del minimo culturale che vorrebbe almeno un’orchestra per ogni regione italiana resta ancora un’utopia, sbattuta in faccia a decine di giovani che si formano ogni anno nei conservatori italiani e che avrebbero tutto il diritto di sedere in tante Orchestre Cherubini, da sostenere come intrepide start up culturali.

 

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