Beatrice Rana a Santa Cecilia
Roma: programma francese diretto da Hrůša
Tutto francese e ben congegnato il programma che vedeva Beatrice Rana solista e Jakub Hrůša direttore per la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia. Le due suite de L’Arlesienne di Bizet incorniciavano l’inizio e la fine mentre nel mezzo il pianoforte solista era protagonista di un pezzo in prima esecuzione, il Concertino di Eric Montalbetti, e poi del celeberrimo Concerto in sol di Ravel. Un effluvio di anniversari in un colpo solo, di cui diremo. In un’intervista radiofonica Hrůša non ha nascosto il piacere di affrontare un programma poco ‘serioso’ e così ricco di colore. Il piacere è stato reciproco, potremmo dire, perché la godibilità dalla prima all’ultima nota è stata la nota caratterizzante di questa serata. Il gesto morbido, efficace, compatto del direttore ben disegnava fin dall’inizio la ricchezza di sonorità, timbri, colori della prima delle due suites di Bizet. E fin dal Prélude, molto noto per il tema di marcia basato su un’antica canzone provenzale, passando per il Minuetto, e poi L’Adagietto e il Carillon, si ritrovava la ricchezza di invenzione tematica e di atmosfere dell’autore di Carmen. Sul palco per la nuova composizione di Montalbetti Beatrice Rana è entrata con il microfono in mano. Con una scelta felice ha introdotto al pubblico l’omaggio a Berio nel centenario della nascita. Eric Montalbetti, nato a Parigi nel’68, ha sempre considerato Berio una figura tutelare e pur avendolo conosciuto non ha mai osato sottoporgli i propri lavori. D’altra parte, aggiungiamo noi, l’anomala parabola dell’attività compositiva di Montalbetti consiste nel fatto che dopo un inizio da bambino prodigio a 11 anni è tornato alla composizione molti anni più tardi, dopo aver concluso un lungo periodo di direzione artistica dell’Orchestra Filarmonica di Radio France. Conciliazione tra serialità e modalità è quanto principalmente Montalbetti dichiara di ammirare di Berio, ma per una sorta di gioco, il richiamo al compositore celebrato avviene per altre vie. E’ precisamente il riferimento ad una parola dialettale valdostana, ‘berio’, appunto, che significa ‘roccia’. Da qui i sottotitoli dei tre movimenti del Concertino che evocano alcune caratteristiche della roccia (la sensazione al tatto, la consistenza, la solidità) e che stagliano questa musica in scenari naturali vasti, grandiosi, di cui l’orchestra è quinta scenografica – afferma la pianista – e lo strumento solista il protagonista aspro, duro, appuntito, maestoso. Spiegazione suggestiva, che ha creato in sala una comunicazione più diretta di questa musica tra la pianista per cui è stato scritto il pezzo, il pubblico e il compositore. La ricchezza degli effetti timbrici orchestrali in risonanza al pianoforte, la sintetica iconicità di un pezzo che non indugia ma scorre spedito, che evoca, ma anche appaga l’aspetto virtuosistico, tutto questo ha catturato felicemente il pubblico. L’inizio della seconda parte omaggiava un altro anniversario, i plurifesteggiati 150 anni dalla nascita di Maurice Ravel. Il Concerto in sol, cavallo di battaglia di grandi virtuosi, sotto le dita di Beatrice Rana appariva ricco di inflessioni sinuose fin dall’attacco, con un senso dell’attesa e dell’imprevisto così vivo da sembrare come se sgorgasse nuovo lì al momento. Un uso del rubato molto accentuato, ritmi sghembi evidenziati, un effetto suggestivo e molto sensuale nei lunghi trilli del primo tempo, insomma qualcosa di diverso dal solito. L’adagio assai, meraviglia delle meraviglie del repertorio di tutti i tempi ha tenuto la sala in ascolto palpitante. La sottigliezza del fraseggio millimetricamente calibrato del pianoforte dialogava e si fondeva con gli interventi strumentali dei singoli fiati, dobbiamo dire, davvero superlativi. Un piacere dell’orecchio e del cuore. Brillantissimo il Presto finale, vorticoso incessante e spavaldo quanto doveva essere. Pubblico in ovazione e due bis pianistici, uno studio di Debussy e una trascrizione, deliziosa, della Danza di fata confetto dallo Schiaccianoci di Cajkovsky. La leggerezza vitrea e surreale della celesta evocata al pianoforte suggellava il senso di gioco che percorreva l’intero programma. La seconda suite de L’Arlesienne concludeva in bellezza il concerto omaggiando così i 150 anni dalla morte di Bizet. Sotto la bacchetta di un direttore la cui qualità non è necessario ribadire ulteriormente, brave le prime parti - da citare il flauto di Andrea Oliva impegnato in assoli in Bizet – e l’orchestra tutta.
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