Muti metafisico a Napoli
Teatro San Carlo: trionfo per il concerto con la "sua"Chicago Symphony Orchestra
È un Antonín Dvořák restituito alla tradizione sinfonica europea, questo della Sinfonia N. 9 in mi minore “Dal Nuovo Mondo” (1893), diretta ieri 19 gennaio da Riccardo Muti, per la seconda volta alla guida della sua Chicago Symphony Orchestra al San Carlo di Napoli (2012). Costruito nei timbri, analitico. Cercato, al di là della semplicità con cui questa musica sembra essere costruita. Sempre severo Muti, non banalmente edonistico; di luce più che di ombre.
Al primo movimento, dove la solidità dell’impianto si nasconde dietro a una scrittura che procede per mutazioni infinite, anche le lunghe transizioni diventano attese. Subito dopo nell’Adagio suono plastico degli ottoni americani che riaffiora nell’immaginario come un’incisione sui dischi ascoltati. E proprio in quella pagina, nell’ultimo movimento (Allegro con fuoco), dopo aver evocato in sintesi il mondo selvaggio dell’estremo Occidente di amata natura e canto popolare, Muti dipinge trame di suoni insuperabili. Èlui a volerlo così, in una postura collettiva quasi popolareggiante, dove ogni scansione di tempo sembra non esistere. Magico per intensità. Inedito, per concentrazione. Emozionante, e oltre.
Trame di poche battute con soli archi introducono “Montecchi e Capuleti” dalla Suite Romeo e Giulietta (1936) di Sergei Prokofiev che apre il concerto. Non è solo tecnica e precisione, pulizia nelle arcate o compattezza dei diversi registri e quindi grande professionismo. È un suono, questo degli archi della Chicago, lavorato da ogni singolo violino, viola, violoncello, oltre il proprio compito, di ascolto reciproco. L’attacco della Suite ha subito impressionato, fatto di filamenti di suoni, dove la musica affiora lievitando, quasi da sola, dal gesto fermissimo del direttore.
Muti, di cui tutto il mondo conosce l’autorevole gesto direttoriale, ampio, millimetrico, raccogliente, sempre puntuale in tutte le indicazioni espressive, rigoroso per la tenuta dell’impianto ritmico, qui sembra volersi immergere nel suono: chiede scansioni minute, pianissimo impercettibili dal volume impalpabile, oltre il sussurro, eppure continuo senza cedimenti. Ma anche senza frastuoni, forzature e rotture. Metafisico quanto basta. Questo indimenticabile concerto va oltre le partiture. Restituite da un’orchestra americana sopra la media di ottime parti e soli di rara morbidezza e colore. Coesa e affidata ad un grande della bacchetta, un “uomo del Sud Italia”, come lui si è definito rivolto al teatro strapieno, annunciando il bis tutto italiano: da Fedora l’intermezzo.
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