Martha e la Pop Orchestra a Bologna
Al Bologna Festival, l’inossidabile Martha Argerich madrina della nuova POP Orchestra fondata da Federico Gad Crema, per una serata “fiume” diretta da Ricardo Castro che trascende i confini dell’evento, in una festa senza fine
Non si sa da dove cominciare per narrare la serata ospitata da Bologna Festival all’Auditorium Manzoni: un «concerto straordinario», come lo definiva l’annuncio, o piuttosto uno «straordinario concerto», com’è stato vissuto dai presenti, che hanno goduto d’una quantità di emozioni e di musica bastevole a riempire tre serate.
Tecnicamente, si trattava di una tappa della tournée di presentazione di una nuova orchestra giovanile, una POP Orchestra, come piace dire agli organizzatori, giocando sull’acronimo di Peace Orchestra Project. Il progetto di pace si esprime qui nella presenza di musicisti fra i 18 e i 25 anni, provenienti da 17 nazioni di 4 continenti, che vuole porsi come ambasciatrice nel mondo di progetti umanitari attraverso la musica classica: membri dell’Orchestra Giovanile di Fiesole e dell’orchestra altrettanto giovanile costituitasi all’interno di NEOJIBA (Núcleos Estaduais de Orquestras Juvenis e Infantis da Bahia), il programma governativo dello Stato di Bahia (Brasile), fondato dal pianista e direttore Ricardo Castro, che dal 2007 promuove nella città di Salvador lo sviluppo e l’integrazione sociale attraverso azioni collettive di didattica e pratica musicale, principalmente fra bambini, adolescenti e giovani in situazioni vulnerabili (sul modello dichiarato del venezuelano El Sistema di Abreu).
Artefice di tale fusione di giovani musicisti è un pianista e direttore d’orchestra milanese altrettanto giovane, Federico Gad Crema, 24 anni, già ospitato da Bologna Festival durante l’estate della pandemia 2020 quale “semplice” accompagnatore della violinista Clarissa Bevilacqua nel cartellone dei Talenti, tornato ora come solista e fondatore dell’Oropa Music Festival, nuovissima manifestazione sorta attorno al Santuario di Oropa, nelle Alpi biellesi, al cui interno ha preso vita il Peace Orchestra Project, attualmente in tournée fra Italia, Svizzera e Francia.
Ebbene, questa lunga premessa per contestualizzare la tappa bolognese della POP Orchestra, alla quale si univa per la prima volta Martha Argherich, un vero «patrimonio dell’umanità», come la definisce affettuosamente Crema, «la più “giovane” di tutti quanti sono questa sera sul palcoscenico», secondo Castro, la quale ha voluto così offrire il suo carisma di artista non solo per concedere un sostegno morale all’iniziativa, ma anche una fattiva collaborazione di indicibile valore artistico e promozionale per la giovane orchestra.
Inutile dire dei timori fra il pubblico bolognese, nelle settimane precedenti il concerto, man mano che si diffondevano le notizie sul delicato stato di salute della ormai leggendaria pianista e sulle serate annullate in agosto in giro per l’Europa. Ma a questo appuntamento Martha Argerich non ha voluto mancare, prima sua apparizione con orchestra dopo la pausa forzata. Era inizialmente previsto l’oneroso Concerto per due pianoforti di Poulenc, accanto a Crema; ragioni di opportunità hanno portato a un cambiamento di programma, sdoppiando la proposta: il Primo Concerto di Beethoven per Argerich e il Secondo Concerto di Šostakovič per Crema, con godimento raddoppiato per il pubblico.
Che dire? Di tante volte che lei si è presentata all’Auditorium Manzoni – a cominciare dai concerti con Claudio Abbado e l’Orchestra Mozart, proseguendo con le serate per Bologna Festival – non si ricorda un’accoglienza trionfale di tale livello, davvero delirante, in una sala strapiena quanto da tempo non si vedeva, col pubblico esaltatissimo, tutto acclamante in piedi, come in quell’Auditorium attivo da vent’anni non si era forse mai visto e udito al termine di un’esecuzione musicale. Se il tragitto che la conduce verso il pianoforte è sempre più lento e incerto, lo scatto delle mani sulla tastiera non ha perso un sol colpo, snocciolando trilli e scalette con un ardore giovanile ch’è l’esito del sincero entusiasmo per trovarsi ancora una volta a suonare davanti al suo pubblico: è lei che condiziona magicamente il suono di tutti, secco e pungente nel forte, morbidissimo nel piano; lei che trascina letteralmente i ragazzi dell’orchestra, quasi anticipandoli all’avvio di ogni nuova frase, e attacca gagliarda il terzo movimento prima ancora che il direttore abbia voltato pagina, provocando un amabile sorriso sulla bocca di tutti loro, presi in contropiede.
Questo Primo Concerto beethoveniano – solitamente un po’ negletto dai grandi pianisti, ma di cui Martha Argerich ha fatto cavallo di battaglia per il 2023 – rivela in tal modo bagliori travolgenti che non vi avevamo mai individuato. Il secondo movimento è per contro celestiale, da far venire il groppo in gola per tanta intensità di pensieri ed emozioni che catalizza su di sé. E del pari indimenticabile resterà nella memoria di tutti l’atletico balzo in piedi sull’ultimo accordo del movimento finale, per correre ad abbracciare il direttore Ricardo Castro come una ragazzina entusiasta al termine dell’esecuzione più importante della sua vita.
Ecco: sarebbe bastato tutto questo – e l’intensità della festa che n’è seguita – per “far serata”, con il coronamento di quel bis che quasi più non ti aspettavi, attaccato prima ancora di essersi completamente riseduta sullo sgabello: ed era (amabilissima provocazione) la Gavotta dalla Terza Suite Inglese di Bach che metà dei presenti in sala hanno suonato più o meno stentatamente nei primi anni di studio del pianoforte, ora trasfigurata in musica senza tempo, privata d’ogni originaria galanteria, e con un impagabile suono acqueo, debussiano, impresso al trio centrale imitante la musette.
Sarebbero insomma bastati davvero quei tre quarti d’ora memorabili ad appagare il nostro ricorrente fabbisogno di nutrimento estetico, e pur anche a riempire questo inadeguato resoconto di un’esperienza non facilmente rendicontabile; ma era soltanto una parte dell’evento programmato. A Federico Gad Crema – nella sua impeccabile haute couture confezionata dai sarti di Érato 1976 con tessuti del lanificio F.lli Tallia di Delfino – toccava ancora la propria metà di gloria, con il Secondo Concerto di Šostakovič. Tutt’altra musica, tutt’altra sonorità della POP Orchestra, tutt’altro pianismo esibito dall’esecutore: morbido, tenuamente tornito, senza forzature; un’altra faccia della medaglia, resa ancor più evidente nel confronto ravvicinato con quanto da poco udito; un suono destinato a restare quasi schiacciato dai clangori orchestrali nel primo movimento, suadente invece nel secondo, sognante, d’ispirazione raveliana.
Terminato Šostakovič, potrebbe essere il momento per una seconda tornata di bis. Ma ecco spuntare nuovamente, e del tutto inattesa, Martha Argerich condotta al pianoforte da Ricardo Castro: sono tre, ora, i pianisti in scena, e di tre generazioni successive, commoventemente. L’aspettativa fra il pubblico torna alle stelle. I tre si siedono stretti stretti davanti alla stessa tastiera per uno sdolcinatissimo Rachmaninov fuori programma (la giovanile Romanza a 6 mani, di cui qualche spunto entrerà poi nel suo Secondo Concerto). E i festeggiamenti riprendono esuberanti.
Ma siamo ancora lontani dalla fine della serata. Il programma propone a questo punto la Suite dal balletto L’uccello di fuoco di Stravinskij. La POP Orchestra cambia nuovamente sonorità, fattasi ora turgida e violenta, incontenibile alle prese con la potenza espressiva richiesta dall’abnorme partitura. Ma è anche una partitura di solisti, che consente alle prime parti di mettersi in luce una ad una; ed immancabile, applauditissima, è dunque la passerella finale concessa da Castro a quei giovani di strabiliante valentìa, sottolineata pure a parole dallo stesso direttore, che vuole suggellarla illustrando rapidamente la storia del loro Progetto. E poiché lo sdoppiamento di concerti pianistici di cui s’è detto aveva allungato oltre misura il programma ufficiale, costringendo a sopprimere l’ouverture dall’opera Candide di Bernstein originariamente prevista come brano iniziale, quale occasione migliore che utilizzarla ora come bis per la glorificazione conclusiva dell’orchestra?
A questo punto il pubblico, appagato come non mai, estenuato oltre misura dal tanto applaudire e gridare, ha forse dimenticato – e purtroppo – che tre ore prima la serata si era aperta con un hors-d’œuvre meritevole di ben altre attenzioni: la Seconda Sinfonia, dal titolo Un mondo nuovo, di Nicola Campogrande, nata lo scorso anno come risposta ai primi venti di guerra in Europa. È una risposta che spinge significativamente i toni sul pedale della melodiosità, con tanto di voce femminile a intonare parole di fiducia universale nell’ultimo movimento (mezzosoprano: Alexandra Achillea Pouta), una risposta venuta da parte di un autore che sta percorrendo una strada tutta propria e di grande interesse artistico per superare l’impasse in cui è caduta la sua generazione di compositori, senza ancora trovare una via certa per il futuro. I giovani musicisti che l’hanno eseguita all’insegna di un’orchestra di pace sono, al momento, l’unico futuro su cui poter contare.
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