L’opera “sostenibile”: una nuova via per Riccardo Muti?
Nell’appendice autunnale del Ravenna Festival vanno in scena “Norma” e “Nabucco”
La Trilogia d’Autunno del Ravenna Festival, appendice ormai tradizionale del cartellone estivo, è quest’anno tutta affidata al genius loci Riccardo Muti: due recite di Norma (16 e 19 dicembre), due di Nabucco (17 e 20 dicembre) e un Gala verdiano (22 dicembre, replicato la sera successiva a Busseto). Al di là dell’esito musicale, accolto trionfalmente dal pubblico che gremiva il Teatro Alighieri nelle prime due date, l’esperienza nel suo complesso suggerisce qualche commento generale.
È dalla seconda metà degli anni ’70 che Muti affronta Nabucco e Norma, opere da lui debuttate precocemente negli anni fiorentini ed eseguite in passato anche a Ravenna sotto diversa forma rispetto alla presente. La quale ha assunto l’aspetto insolito di un’esecuzione in forma di concerto arricchita. Ad avvolgere il palcoscenico c’erano infatti le scenografie virtuali del ventiseienne digital artist – ma pure valente clarinettista – ravennate Matteo Succi (in arte Svccy), realizzate con il visual programmer Davide Broccoli, che percorrevano sostanzialmente due strade: la visualizzazione del luogo in cui si ambienta di volta in volta la vicenda secondo il libretto o la proiezione di disegni astratti da intendersi in qualche modo correlati agli affetti del momento. Il tutto sempre in grande formato dimensionale e caratterizzato da colori assai decisi. Ebbene, là dove sullo sfondo e ai lati apparivano la sacra selva d’Irminsul per Norma o i giardini pensili babilonesi per Nabucco, l’effetto diveniva suggestivamente quello di un recupero in forma aggiornata delle antiche scene dipinte, vale a dire la forma filologicamente più corretta per mettere in scena tali opere, nate nell’Ottocento col supporto di fondali e quinte laterali decorati da provetti pittori teatrali.
Che ormai da molti anni Muti sia in dialettico rapporto con la regia d’opera contemporanea è cosa nota: un rapporto sfociato talvolta in aperto conflitto, come in occasione della Clemenza di Tito mozartiana abbandonata a Salisburgo nel 1992, in contrasto con lo spettacolo dei coniugi Hermann. Eppure non si può certo accusare Muti di essere stato in passato un oppositore delle nuove istanze di ricerca spettacolare, se solo si pensa al lungo e reiterato rapporto con Luca Ronconi, negli anni in cui spettacoli oggi considerati dei classici – come il Nabucco e la Norma fiorentini del 1977 e 1978 sopra ricordati – venivano chiassosamente bollati dal pubblico con appellativi sprezzanti.
La soluzione attivata in questi giorni a Ravenna rinuncia di fatto ad ogni lettura registica, pur immergendo l’esecuzione musicale in una visualità che rende onore al testo operistico più di tante sedicenti regie – sostanzialmente autoreferenziali – che si calano oggi come corpi estranei sopra le creazioni drammatico-musicali del passato, di fatto negandole, schiacciandole, violentandole. Se questa, or ora tentata, possa diventare una linea operativa costante per il futuro del Ravenna Festival, specialmente nell’auspicabile sua versione più sofisticata del ledwall, è difficile pronosticarlo. Per certo si tratta di un’operazione in linea con quella sostenibilità di cui tanto ci si riempie oggi la bocca in tutti i campi, e che qui abbiamo visto declinata secondo le varie accezioni della parola: “sostenibile” in termini di costi, decisamente inferiori alla costruzione di grandi impianti scenografici; “sostenibile” in termini ecologici, per il limitatissimo uso di materiali e nessuna necessità di smaltimento successivo (anche in raffronto con gli antichi telari dipinti, di cui la video art teatrale sembra essere l’evoluzione digitale); e pure “sostenibile” – si perdoni la facezia linguistica – per il pubblico sempre più insofferente nei confronti di ciò che da troppo tempo ormai non riesce più a capire (le recenti violente rivolte di massa contro il Maometto II di Bieito a Napoli e Il diluvio universale di Masbedo a Bergamo dovrebbero cominciare a far riflettere anche sovrintendenti e direttori artistici).
In assenza di regia, lo spettacolo era in questo caso Muti stesso, visibilissimo a tutti sull’orlo del palcoscenico allungato fin sopra la buca orchestrale coperta per l’occasione. La sua irrefrenabile mano sinistra e la sua icastica maschera facciale in continua evoluzione su ogni frase musicale diventavano non solo una concertazione in diretta rivolta ai tanti esecutori schierati al suo cospetto (e in alcuni casi sembravano davvero soluzioni estemporanee, non tentate in prova), ma finivano per rivelarsi una vera guida all’ascolto della partitura per il pubblico magnetizzato dai suoi gesti, quasi un’ekphrasis visiva della musica.
Se nel Nabucco ravennate del 2013, proposto da Muti al Pala De Andrè in classica forma di concerto, mi pareva allora di poter rilevare che i tempi staccati e il piglio dell’esecuzione non fossero comprensibilmente più quelli incandescenti del suo Nabucco anni ’70 e ’80, felice sorpresa è stata riconoscere invece ora al Teatro Alighieri gran parte di quelle emozioni tanto lontane – eppure mai dissoltesi – a rimarcare un particolare momento di ritrovata vitalità nel Maestro, mancata talvolta in esecuzioni quasi “frenate” da lui offerte in anni recenti anche nel repertorio strumentale.
Ma ancor più vincente è stato l’approccio – vorrei dire – sinfonico-corale alle due partiture operistiche proposte, quasi indirizzate verso una lettura oratoriale, capace per altro di mettere in luce le qualità del Coro del Teatro Municipale di Piacenza istruito da Corrado Casati a livelli ormai da tempo registrati di altissima qualità. Il primo quarto d’ora di Norma è stato tutto condotto in tal senso, a cominciare da una Sinfonia risultata memorabile proprio là dove le correnti esecuzioni tendono invece a “tirar via”: penso in particolare all’oasi in modo maggiore che fa da coda al brano, cesellata battuta dopo battuta come mai mi era capitato di udire. E a sconfessare antiche critiche a Bellini e alle sue capacità di orchestratore bastava sentire quanta ricchezza si possa trarre da quelle linee invero semplici e fin semplicistiche, se impreziosite da un accordo più appoggiato, da un ritenuto appena accennato, da un accento mai udito su quella nota eletta allo scopo con la più grande sensibilità per la melodia belliniana.
Tutto questo si traduceva da intenzione a realtà interpretativa grazie alla duttilità e prontezza incondizionata dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, la “sua” orchestra ancorché mutevole di anno in anno, in totale simbiosi con gli obiettivi del Maestro nella sua formazione attuale, vera protagonista assoluta delle due serate ravennati. Mai come in questa occasione si è avuta la percezione nettissima di un organismo musicalmente perfetto, di una compattezza di intenti e di risultati non comune, di un suono privo di alcuna sbavatura, come se si trattasse di un unico grande violino o violoncello collettivi (per tacere degli ottoni e dei corni in particolare, sempre intonatissimi e perfetti, senza uno solo di quegli “scrocchi” che affliggono ognora tali strumenti nelle nostre orchestre stabili).
Era un piacere inesplorato scrutare – quasi spettatori indiscreti – la comunicazione costante e diretta fra l’anziano direttore e la giovane spalla dell’orchestra, la violinista Federica Giani, e appurare poi compiaciuti come da questa la sollecitazione esecutiva rimbalzasse con la massima naturalezza a tutti gli archi della fila dietro di lei: non una, ma cento, mille volte nel corso delle due serate. Altro orchestrale destinatario di grande attenzione è stato il primo violoncello Luca Dondi, che al temine di Norma il Maestro ha fatto oggetto di un’esibita manifestazione d’apprezzamento assoluto; ma non meno affascinanti sono risuonati, il giorno successivo, i tanti “assolo” dell’altro primo violoncello, Luigi Visco, in Nabucco.
Veramente l’affetto e la stima nutriti oggi da Riccardo Muti per i giovani di quest’orchestra, che è in tutto e per tutto una creatura sua ed esclusiva, si evince dai continui gesti paterni con cui li attira a sé durante l’esecuzione, dai sorrisi rassicuranti che indirizza a tutti con amorevolezza, dai ripetuti gesti di consenso ad ogni passaggio uscito proprio come lui lo desiderava: quelle corpose sottolineature dei bassi che ti giungono dirette alla pancia, quegli indugi che spuntano inattesi con effetto e potenza quasi erotici, quei calibratissimi crescendo dagl’inferi all’empireo come soltanto lui riesce oggi a ottenere dalle orchestre con le quali abbia maggiore confidenza.
Una confidenza che non sempre Muti riesce invece a instaurare altrettanto facilmente con i cantanti. Certo, la sintonia raggiunta in passato con Renata Scotto o Montserrat Caballé, con Sesto Bruscantini o Giorgio Zancanaro fanno parte della storia dell’interpretazione operistica del Novecento. Ma la fiducia riposta sui giovani anche nell’ambito delle voci lo porta inevitabilmente a rischiare, con consapevolezza. Fra i tanti cantanti uditi nelle due serate, l’artista più singolare e insieme più controversa risultava essere il soprano cubano-americano Monica Conesa quale Norma. Suo modello è incontrovertibilmente Maria Callas: nella ricerca di un timbro specifico, in certe modalità di fonazione del suono e pronuncia della parola, fin nella gestione quasi spudorata di mani, braccia, spalle, testa, volto: irrefrenabili! Tutte cose che, interpretando un personaggio chiave nella carriera di Maria Callas, finiscono per assumere un peso determinante nell’esecuzione vocale e visiva dell’intera opera, anche e soprattutto se offerta in forma di concerto. Ma la Callas che Monica Conesa prende a modello non è quella del 1950, per intenderci, bensì del 1965, la Callas cioè che si aggrappava a quanto di voce le era rimasta per giocare tutto o quasi in termini paravocali. Così la frase iniziale del primo recitativo di Norma («Sedizïose voci») in bocca alla giovane emula sembrava per impeto piuttosto quella con cui Medea irrompe nel suo ultimo atto. E sullo stesso registro espressivo si continuava fino al termine dell’opera, non senza momenti di grande interesse, ma con altrettanti che lasciavano un dubbio sull’ortodossia di quel canto.
La singolare e inusitata fonazione adottata di preferenza da Monica Conesa parrebbe doversi identificare con quella oggi nota col nome di twang, che Callas stessa usava invero per inasprire le frasi più infernali (in Medea, in Macbeth e saltuariamente anche in Norma), ma non pervasivamente lungo tutta la recita. La laringe, spinta nel twang in posizione alta, schiaccia il suono contro il palato conferendogli un timbro metallico e pungente, fra il gutturale e il nasale, con un effetto espressivo molto interessante, appunto, quale “effetto” saltuario, ma che alla lunga diviene stucchevole, limitando oltretutto la possibilità di affrontare con laringe rilassata le basi vocali del belcantismo: i trilli, che Conesa ha ripetutamente omesso, e le volate di semicrome vocalizzate, che la sua voce non riusciva a sgranare con proprietà.
D’altra levatura il soprano di Nabucco, la russa Lidia Fridman, alle prese con la parte sopranile più esigente del catalogo verdiano: anche la sua voce risuona ognora tagliente, con suoni quasi sempre sferrati con impeto e della massima sonorità, ma liberi di correre a riempire la sala teatrale con pienezza, pronti a precipitarsi rapidamente per due ottave e oltre, dall’estremo acuto all’estremo grave, e senza tema d’affrontare quelle agilità tardo-belcantistiche trasformate da Verdi in espressioni drammatiche a tutto tondo. Le faceva da contraltare il baritono rumeno Serban Vasile, che delineava un Nabucco – se possibile – più recitato che cantato: ecco, proprio con lui, più che con qualunque altro cantante delle due compagnie, Muti poteva operare come con gli strumenti dell’orchestra, indicandogli di volta in volta con mano eloquentissima ogni sfumatura, ogni modalità d’attacco della frase successiva, quasi innalzandolo a propria voce esterna, a suo prolungamento sonoro (mirabile, dati questi presupposti, la scena del delirio).
Sempre in Nabucco, va segnalata la prova del basso russo Evgeny Stavinski per la rara morbidezza vocale con cui ha gestito anche i momenti più accesi del suo ruolo, nonché il mezzosoprano Francesca Di Sauro nella piccola parte di Fenena, risolta impeccabilmente. Quanto al tenore Riccardo Rados (Ismaele) applicava purtroppo a Verdi emissioni talvolta sgraziate, più pertinenti ad altri repertori: miglior figura avrebbe forse fatto, al suo posto, il tenore Giacomo Leone, relegato invece nella particina di Abdallo. Lo stesso Rados assumeva a sua volta l’ancor più ridotta parte di Flavio in Norma; e lì l’effetto era invece vincente, dando consistenza baritonale a un personaggio solitamente petulante nei dialoghi con Pollione. Il quale prendeva voce dal tenore albanese Klodjan Kaçani, intimorito sulla tremenda cavatina iniziale, più sicuro nel prosieguo dell’opera. Salita in corsa a sostituire l’annunciata Eugénie Joneau, il mezzosoprano Paola Gardina si è cimentata nella parte di Adalgisa con qualche esitazione vocale: gioverà risentirla in una situazione di maggior agio. Puntuale l’Oroveso del basso Vittorio De Campo.
Teatro annunciato da tempo super esaurito ad ogni rappresentazione, con tanti spettatori stranieri accorsi per il week-end. Interminabili le ovazioni finali per tutti, ma scarsi gli applausi ai cantanti al termine dei singoli numeri musicali di Norma, da parte di un pubblico forse spiazzato per l’esecuzione oratoriale, al punto da indurre Muti a girarsi verso la platea sul silenzio con cui veniva accolto pure il fragoroso coro «Guerra! guerra!», rivolgendo al pubblico un’espressione mimica che diceva: «Neppure questo mi applaudite, stasera?».
Anche durante l’esecuzione pomeridiana di Nabucco, assai più applaudita pagina dopo pagina, il Maestro si è trovato a dover ruotare sulla sua sedia girevole ben tre volte, ma per indirizzare ora al pubblico sguardi fulminanti, indispettito dalla rumorosità di oggetti caduti fragorosamente a terra, continui colpi di tosse minimamente trattenuti, caramelle scartate con disinvoltura nei momenti più delicati e – ciliegina somma – il trillo della sveglia per la pillola delle 18 prorotto sul pianissimo che avrebbe soltanto desiderato di concludere impalpabilmente un «Va’, pensiero» altrimenti mirabile...
Norma (foto Zani/Casadio)
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