L'ebraismo secondo Anthony Coleman
Il pianista a Venezia per riscoprirne e rileggerne la tradizione musicale
Recensione
jazz
Una miniera di sapienza musicale, un pianista completo, un compositore-improvvisatore con vivace senso dell’umorismo.
Questo è, come minimo, Anthony Coleman, tornato a Venezia come musicista residente, ad approfondire la tradizione musicale ebraica della città lagunare. Alla fine, un piano-solo nel raccolto e accogliente teatro Fondamenta Nuove, seguito da un pubblico folto e partecipe.
Lo sguardo di Coleman verso lo strumento mette insieme la concezione orchestrale di Ellington e la colloquiale tradizione della canzone yiddish, la deformazione del romanticismo europeo e l’alea del Novecento.
A volte, si concentra su un tema, ed è lì che dà il meglio. Come con le riletture di Mordechai Gebirtig e con le formidabili galoppate attorno a Jelly Roll Morton, fissate su cd per la Tzadik (”Freakish”).
A Venezia invece Coleman ha preferito visitare differenti stazioni espressive, senza illuminarne particolarmente alcuna.
Ha salmodiato canzoni scure, con un poco efficace uso della voce (addirittura nel prologo in un dialetto veneziano improbabile), oppure rivoltato con garbo una sonata di Galuppi o un rubato chopiniano. Ma ha anche proposto un collage di registrazioni giustapposte, dedicato a C. Marclay e J. Oswald, fino alle attese citazioni di jazz-klezmer tratte dal repertorio di “Sephardic Tinge”.
Il mix ha funzionato solo in parte, forse per mancanza di una reale partecipazione emotiva di Coleman, un po’ sotto tono per le sue eccelse possibilità.
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