Le pulsioni di Tannhäuser
All’Oper Frankfurt un nuovo allestimento dell’opera wagneriana con la direzione di Thomas Guggeis e la regia attualizzante di Matthew Wild
Heinrich von Ofterdingen è uno scrittore fuggito dalla Germania nazista per approdare negli Stati Uniti e firmare un romanzo, Montsalvat, che gli ha meritato il Pulitzer nel 1956. È un rispettato docente dell’università cattolica Stella Maris University in California. È felice? Per niente! È in piena crisi di ispirazione e tormentato da pulsioni omoerotiche represse a malapena. Sono alcune tracce di verità – il nome viene dal romanzo incompiuto del 1802 di Novalis, Montsalvat (richiami wagneriani a parte) è il titolo di un romanzo del 1956 dello scrittore e accademico di Francia Pierre Benoit, e l’università potrebbe verosimilmente appartenere ad una delle tante imprese della confraternita laicale dei piccoli fratelli di Maria – in un racconto completamente inventato per aggiornare la vetusta storia del trovatore Tannhäuser (noto anche come Heinrich) diviso fra i piaceri dell’amore carnale sperimentati nel Venusberg e l’idealizzazione della figura femminile che ha le sembianze di Elisabeth, la nipote del langravio di Turingia Herrmann (che nel nuovo script è il rettore in clergyman dell’università).
Già sulle note della celebre ouverture, dopo alcune (finte) prime pagine che ricostruiscono la vicenda umana di von Ofterdingen, troviamo il protagonista, che da tempo ha fatto perdere le proprie tracce, rinchiuso in una stanza d’hotel affollata dai fantasmi della propria mente. Le voci delle sirene – “Naht euch dem Strande!” (Venite alla spiaggia) – annunciano qui l’arrivo di un nerboruto surfista, prima di una processione di icone gay dalla classicità al Tadzio di Thomas Mann, con una Venere tutt’altro che tentatrice ma rappresentata qui come presenza mortifera (e al suo richiamo il tormentato scrittore cederà nel finale ingerendo un tubetto di barbiturici). Temporaneamente rientrato nei ranghi universitari, nell’austera aula magna che funge da Wartburg Heinrich partecipa alla gara dei cantori anno 1961 (aperta ovviamente dalla banda degli ottoni e cheerleader), nella quale i concorrenti sono i conformisti colleghi accademici, ma provoca scandalo baciando in bocca un giovane studente efebico. Il pellegrinaggio imposto dal rettore Herrmann nella capitale della cristianità coincide con l’apertura del Concilio Vaticano II officiata da Papa Giovanni XXIII su sedia gestatoria mostrata nelle immagini d’epoca. E di più non riveliamo per non rovinare la sorpresa del finale che reinterpreta creativamente l’idea wagneriana della redenzione tramite l’amore, come del resto tutta la sceneggiatura, non priva di un fondo di ironia, immaginata dal regista Matthew Wild per il suo Tannhäuser andato in scena con successo all’Oper Frankfurt. Lo spettacolo è molto curato nella parte visiva (le scene sono di Herbert Barz-Murauer, animate dai grovigli di corpi nudi delle proiezioni video di Clemens Walter, e i costumi “sixties” di Raphaela Rose come le vaporose acconciature) e a suo modo coerente nell’aggiornamento del Medioevo reinventato da Wagner a metà Ottocento a una sensibilità più contemporanea.
Altrettanto riuscita l’esecuzione musicale affidata al neodirettore musicale del teatro Thomas Guggeis, visibilmente in luna di miele con il pubblico francofortese. Il gesto è sicuro, la tecnica solida, il pensiero musicale limpido. La Frankfurter Opern- und Museumsorchester risponde con slancio e suono compatto e brillante e non privo di finezze nei passaggi più intimistici. La compagnia di canto è buona nel complesso ma sconta l’assenza per malattia del Tannhäuser titolare Marco Jentzsch sostituito da Corby Welch, “Heldentenor” di lunga esperienza ma piuttosto legnoso nel fraseggio, spesso forzato nell’emissione e con più di un segno di usura nel mezzo vocale, sorvolando per ovvi motivi sulla scarsa immedesimazione nell’accurato disegno scenico. Al contrario l’Elisabeth di Christina Nilsson è un piacere all’ascolto già dal radioso “Dich, teure Halle” eseguito con eccellente perentorietà, sostenuta da un timbro limpido, grande sicurezza nell’emissione e dizione chiarissima. Convince meno, invece, la Venere di Djamila Kaiser, meno compiuta nell’interpretazione e vocalmente poco omogenea. Nel personale accademico, il giovane baritono Domen Križaj dona al suo Wolfram in clergyman una linea vocale elegante e dalla ricca timbrica, Andreas Bauer Kanabas è un Hermann ben disegnato e reso vocalmente con grande potenza e autorità, e ben definiti sono anche gli altri ruoli con Magnus Dietrich, Walther von der Vogelweide di bello slancio tenorile, Erik van Heyningen, Biterolf, Michael Porter, Heinrich der Schreiber, fino a Magnús Baldvinsson, Reinmar von Zweter. Molto fresco e gradevole il ritratto del pastorello (qui l’inserviente dell’università) di Karolina Bengtsson. Marcante l’apporto del Coro dell’Oper Frankfurt rinforzato, preparato da Tilman Michael, morbido e possente, molto versatile nel dare vita alle varie sfaccettature richieste dalla scrittura wagneriana.
Teatro esaurito e pubblico in piedi con ovazioni soprattutto per Christina Nilsson e il direttore Thomas Guggeis alla fine.
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