L'arte della boxe secondo Luca Aquino e Manu Katché
La prima di Gong, il suono dell’ultimo round in streaming per il Roma Jazz Festival
«Se potessi rinascere vorrei essere come quel pazzo albino di Hermeto Pascoal». Lo disse Miles Davis, dopo aver conosciuto il genio brasiliano. Quel soprannome, “albino loco”, venne fuori dopo un incontro di boxe, nella sua casa di Central Park. Pascoal era giovane, ma non così agile e preparato, Davis aveva addirittura un ring dentro casa. Guardando la sua pancia, il trombettista esordì dicendo: «Non ce la farai mai». Invece, lo strabismo di Pascoal gli tese un tranello. Miles non sapeva in quale direzione guardare e, alla fine, lo stregone di Alagoas lo colpì dritto in faccia.
Miles Davis era follemente innamorato della boxe. Come per il jazz, la boxe è una fede assoluta, una vocazione. A volte, però, può diventare un’ossessione, o addirittura identificarsi con la vita stessa. È stato così per Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon, Mike Tyson, i protagonisti ideali di Gong, il suono dell’ultimo round, il concerto multimediale del Luca Aquino Trio (Antonio Jasevoli alla chitarra, Pierpaolo Rainieri al basso), insieme al batterista francese Manu Katchè.
– Leggi anche: Luca Aquino, un sontuoso ritorno
La sera del 17 novembre, in diretta streaming sulla piattaforma Live Now, dalla sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, è andata in scena la prima mondiale del loro nuovo progetto, arricchito dai racconti del giornalista sportivo Giorgio Terruzzi (storica penna del Corriere della Sera) e dalle immagini inedite di Mimmo Paladino. Quest’anno, nonostante la pandemia, il Roma Jazz Festival giunto alla sua 44° edizione, ha mantenuto l’impegno, decidendo di resistere e di accordarsi al tema scelto: il cambiamento, inteso non solo come spirito di un tempo che cambia, ma anche come riflessione aperta sui diritti civili, sociali, sulle questioni di razza, di genere. Il progetto di Aquino e Katché è una proposta originale, che non si ferma al jazz, ma coniuga l’arte della boxe a un flusso narrativo e alle spinte artistiche della transavanguardia.
Sul ring come sul palco succede qualcosa che non accade in nessun altro luogo: tutti i tabù vengono eliminati, si prende a pugni la carne viva senza scrupoli e, a volte, fare i conti con le sconfitte diventa una sfida insuperabile. Vengono proiettate sullo schermo, con immagini d’archivio in bianco e nero, le storie dei grandi pugili, le loro straordinarie imprese, ma anche i loro fallimenti e fragilità, in continua lotta con quel senso di onnipotenza, di tormento per la vittoria. Del resto, l’arte della boxe ha affascinato le menti di famosi intellettuali. Da Jean Cocteau, che aveva un rapporto puramente estetico con questo universo, folgorato dal pugile Al Brown per il prestigio della sua presenza, a Hernest Hemingway, che in quell’estate del 1929 a Parigi, durante l’incontro con lo scrittore canadese Morley Callaghan, in cui Francis Scott Fizgerald fece da arbitro, non riuscì mai ad accettare la sconfitta.
I primi scritti su quello che non si chiamava ancora pugilato, risalgono a Omero e Virgilio. Pindaro descrive alle Olimpiadi le gesta di Diagoras, un terribile combattente. Ai greci piaceva questo tipo di combattimento, che veniva praticato con cinghie intorno alle mani, che causavano terribili ferite al viso. Nel XIX secolo il pugilato diventa quasi sacro: il simbolo dei popoli. Il filosofo francese Alexis Philonenko parla inoltre di una «lotta del bene e del male, in cui però emergono grandi personalità».
E le complesse personalità dei sei boxeur si manifestano nella musica, nella sintesi sonora di Aquino, nelle melodie delicate (“Baciu” o “Dead sea moon”) e in altre desertiche (“Wadi Rum”), fino ai soffiati che all’improvviso s’infiammano. La musica cammina sul filo del racconto e la voce fuoricampo di Terruzzi s’intreccia ai temi che si spostano da uno strumento all’altro. La scena prende vita quando arriva Cassius Clay, diventato dopo la conversione all’Islam Muhammed Ali, un uomo libero, «lo spirito stesso del XX secolo», come scrisse Nornan Mailer. L’atmosfera è elettrica, Aquino si lascia andare all’improvvisazione e Katché, richiamando la danza di Ali, costruisce quadri ritmici che saltellano da una parte all’altra (come in “Clubbing”).
Quando arriva l’intoccabile, l’argentino Nicolino Locche, il musicista campano cambia velocemente guardia, consegna i suoni alle macchine e li fa fluttuare poco dopo nell’aria, sovrapponendoli ad altri più duri del basso e ai riff suadenti della chitarra. Con l’apparizione della bestia rara, violenta e nera, il ritmo cambia e si adegua all’insofferenza sincopata di Tyson, ad una partitura che si fa possente, rivelandosi nelle sperimentazioni elettroniche, o negli assoli di Jasevoli e Rainieri.
Il progetto del trombettista campano, già da anni al fianco di Manu Katché (che vanta collaborazioni con Peter Gabriel, Pink Floyd, Dire Straits, Sting, passando per Joni Mitchell e Jan Garbareck), ha in sé lo spirito unico del jazz contemporaneo e la memoria di sonorità orientali (le composizioni originali sono tratte dal disco di Luca Aquino Petra, realizzato nel 2016 insieme alla Jordanian National Orchestra). Al di là della corda del ring ci sono delle storie che non parlano solo di boxe o di jazz, ma anche del rapporto dell’uomo con i propri limiti, con la propria autostima spesso vacillante e con quel senso di onnipotenza che spinge la mente oltre le sfide.
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